Saman, vittima del falso mito del multiculturalismo di sinistra

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La vecchia cara Italia vanta la sorprendente capacità di screditare se stessa e le proprie radici con lo stesso vigore con cui esalta e osanna la cultura altrui. È disposta a mettere da parte se stessa, le proprie tradizioni e la propria identità solo per glorificare altre religioni, altre consuetudini, altri simboli. Trova il marcio in se stessa ma guai a cercarlo altrove, come se rinnegare ciò che siamo e tendere a ciò che non saremo mai fosse un atto di incredibile avanguardia e progresso.

L’inclusione esterofila accompagnata da un esotico gusto per il crogiolo multiculturale rischia goffamente però di divenire essa stessa una discriminazione nei confronti dello stesso artista, atleta, o del qualsivoglia personaggio pubblico di cui si finisce ormai inevitabilmente a esaltarne in primis la nazionalità e poi solo in seconda battuta le eventuali doti personali che ne possano giustificare il successo. Emblematiche le ultime polemiche scatenate dalla Francia contro la Nazionale italiana, che a quanto pare si è macchiata della gravissima colpa “di non avere nemmeno un giocatore nero in squadra”: fioccano tweet straripanti di accuse di razzismo, con tanto di paragone con Ku Klux Klan, come se la priorità fosse il colore della pelle dei giocatori e non più l’attitudine sportiva.

Su questa falsa riga, durante l’estate scorsa la regione Puglia aveva pubblicato un bando con cui si finanziavano le strutture turistiche qualora queste avessero eliminato i simboli cristiani, diventando “Muslim Friendly” per rendersi più accoglienti nei confronti dei musulmani. La cantilena è la stessa di sempre: è bene che i Cristiani si facciano da parte in nome della loro millenaria dominazione sul mondo e che si aprano invece all’incontro con le millantate minoranze oppresse, quella musulmana in primis, circondata dalla sua aura di sacra intangibilità.

È curioso notare, ogni qual volta che si parla di Cristianesimo, quanto sia scontato individuarne solo gli aspetti negativi e sanguinari, magari includenti gli scenari di guerra afferenti al Vecchio Testamento, senza mai prenderne in considerazione l’esegesi, l’interpretazione e la contestualizzazione in chiave odierna: la stessa libera interpretazione che invece diventa reato per quanto riguarda le scritture nell’Islam, di cui è d’obbligo attenersi esclusivamente al mero significato letterale e che da secoli e secoli considera donne e omosessuali creature inferiori rispetto agli uomini.

Fa quasi amaramente sorridere ripensare a Malika e ai suoi genitori che hanno pensato di cacciarla di casa solo perché omosessuale. Ripensare alle battaglie mediatiche contro una famiglia omofoba, alla solidarietà di massa del web nei confronti di una ragazza diventata paladina dei diritti civili, bandiera da sventolare per favorire l’approvazione del mistico ddl Zan, alle trasmissioni televisive che l’hanno ospitata per raccontare la sua battaglia. Eppure tutto concluso e scagliato nell’oblio non appena si scopre la religione musulmana della famiglia stessa. Eppure lascia attoniti e sconcertati la vicenda Saman, la giovanissima ragazza di origini pakistane, umiliata, ferita e infine barbaramente uccisa dalla sua stessa famiglia, quella famiglia da cui avrebbe sognato solo incondizionato amore e protezione e che invece è diventata carnefice, incubo, oppressione, orrore e ostacolo a ogni suo sogno.

La sua unica colpa sembra essere quella di avere un fidanzato e forse delle abitudini giudicate inconvenienti, smodatamente occidentali: non rispettare il Ramadan, truccarsi, e infine il grande affronto, quello di rifiutarsi categoricamente di sposare un cugino nel nome di un matrimonio combinato. Che ci sia da monito il suo corpo straziato, occultato, disonorato, abbandonato chissà dove, in nome della più atroce delle barbarie. Che ci siano da monito le vessazioni e le umiliazioni quotidiane cui le donne musulmane sono sottoposte nel nome di una religione che non conosce differenza tra libertà e obbedienza.

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