Se il nuovo Leviatano ci nega perfino la gioia del Natale

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Gli storici della filosofia, quando parlano dello Stato inteso come Grande Leviatano da Thomas Hobbes, sono soliti ricordarci come il pensatore contrattualista inglese avesse mutuato la sua concezione dell’autorità pubblica (e del bene comune) da Oliver Cromwell, l’austero dittatore puritano inglese che negli anni Quaranta del XVII secolo, sbaragliando l’esercito di Re Carlo I, pose fine a lunghi anni di guerra civile, instaurando un sordido regime che, pur di garantire pace e sicurezza ai cittadini, li privò di gran parte delle loro libertà. Hobbes era terrorizzato dalla guerra e dalla violenza di cui erano capaci gli esseri umani, e probabilmente la sua angoscia era ulteriormente alimentata dai cambiamenti climatici che in quegli anni colpirono l’Europa (e le isole britanniche in particolare), abbassando notevolmente le temperature medie stagionali e provocando carestie e pestilenze.
Fu così che, da raffinato analista quale era, Hobbes seppe cogliere un tratto profondo dell’animo umano: il bisogno di sicurezza, l’angoscia di avere salva la vita a qualsiasi prezzo, giungendo alla conclusione che è questo che i cittadini chiedono al Potere – che da ciò trae legittimazione, prima ancora di qualsiasi altra cosa – il che li rende disponibili a sacrificare al Leviatano ogni loro bene, materiale e immateriale, compresa la preziosa libertà.
Non si sa se tra i beni che Hobbes considerava sacrificabili ci fosse pure il Natale. Fatto sta che Cromwell nel 1645 ne proibì i festeggiamenti. Sostenuto dall’ala più radicale dei suoi fedelissimi, fautori di una nuova e più incisiva Riforma della Chiesa, impose l’apertura dei negozi e un digiuno penitenziale da tenersi proprio il 25 dicembre. Secondo i parlamentari cromwelliani riuniti a Westminster “i nostri antenati […] hanno trasformato questa festa, fingendola il ricordo di Cristo, in un’estrema dimenticanza di lui, dando libertà alle delizie carnali e sensuali”.
Questa spiritualità penitenziale ed austera, tipicamente protestante, è la stessa che nel tempo ha permeato il senso comune, condizionando il giudizio (negativo) sullo sfarzo e il lusso della Chiesa Cattolica, dimenticando che quelle ricchezze, allora come oggi, hanno reso possibile la bellezza delle cattedrali e delle basiliche rinascimentali, per non parlare dei capolavori di tutte le arti, realizzati grazie al mecenatismo ecclesiastico. Un’eco di quel tipo di devozione è infine risuonato in queste ultime settimane nelle prediche con cui il nostro presidente del Consiglio ci ha invitato a celebrare un “Natale sobrio”, raccolti in noi stessi, facendo di necessità (pandemica) virtù, sfruttando l’occasione fornitaci dal virus di scrollarci di dosso la mondanità, per accedere finalmente a un più intimo dialogo con Dio e con le cose “veramente importanti”.
Non sono tanto le raccomandazioni volte a tutelare la salute nostra e dei nostri cari ad irritare di questo ragionamento. A risultare insopportabile è, innanzitutto, la pretesa della politica di entrare in casa nostra, nelle nostre abitudini, volendo persino sindacare sulle modalità attraverso le quali noi interagiamo con i nostri familiari. In una primissima fase qualche ministro (e qualche virologo) ha persino avuto il coraggio di invitare i cittadini a forme particolarmente odiose di “obbedienza civile” (per dirla con le parole di qualche influente editorialista), di fatto istigando alla delazione nei confronti di quei vicini eventualmente rei di voler organizzare cenoni secondo i canoni dell’ormai anti-storica “famiglia allargata”. Una forma particolarmente bizzarra di Stasi sanitaria, che sorge dal presupposto che lo Stato possa regolare, in nome della difesa della salute, ogni nostro comportamento, magari facendo leva sugli istinti antisociali abbondantemente diffusi nella specie umana. Guarda caso la nostra libertà offerta sull’altare del nuovo Leviatano, garante del bene supremo della “sicurezza sanitaria”, a corroborare la tesi di quanti vedono proprio in Hobbes l’antesignano della “biopolitica” contemporanea.
Ma non è tutto. Il Giuseppe Conte in versione “profeta” si fa anche portavoce di una interpretazione solipsistica del rapporto col divino e con il soprannaturale, che nega un elemento costitutivo della religiosità, quello comunitario. Non c’è rito, né liturgia, né autentica devozione, senza dimensione collettiva. Né è possibile ritenere la gioia, il divertimento, persino lo sballo (nei modi e nei tempi giusti) come non-essenziali alla vita, sinanche nei momenti storicamente più drammatici, quando non si può fare altro che attendere che la notte termini e abbia finalmente luogo il miracolo del ritorno della luce.
È questo che ci insegna il Natale e nel difendere il suo senso più autentico e profondo da una politica ormai fuori controllo, non possiamo che far nostre le parole usate dallo scrittore satirico John Taylor, in un opuscolo intitolato The Complaint of Christmas e diffuso tra i membri della corte di Carlo I in esilio ad Oxford, mentre nel resto d’Inghilterra era proibito celebrare la nascita di Cristo: “e così i lieti signori del malgoverno sono soppressi dai pazzi signori del cattivo governo di Westminster”.

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