50 anni dalla morte di Ramelli: le idee hanno bisogno di coraggio

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Milano, 13 marzo 1975. È una giornata come le altre in via Paladini, in zona Città Studi. Sergio Ramelli ha diciotto anni, frequenta l’istituto tecnico Molinari, guida un Ciao e milita nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano. Frequenta l’oratorio del suo quartiere, gioca a calcio e fa il tifo per l’Inter. È un ragazzo come tanti, ma è anche tanto di più.

Quel giorno, come ogni giorno, Sergio sta rientrando a casa da scuola. Ad aspettarlo, però, non ci sono solo i palazzi familiari del suo quartiere, ma un gruppo di giovani militanti della sinistra extraparlamentare, appartenenti ad Avanguardia Operaia. Non gli perdonano una colpa: qualche tempo prima, in un tema a scuola, aveva “osato” condannare le Brigate Rosse che alcuni mesi prima, a Padova, avevano colpito a morte i militanti missini Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. Quel tema era stato sottratto ai professori e appeso sulla bacheca del Molinari: “ecco il tema di un fascista”.

Da lì, un calvario: insulti, minacce, violenze. Sergio, scortato dal padre, si reca in presidenza per cambiare scuola. Ma non è mai abbastanza, la sete di chi odia non si placa neanche dopo. Fino a quel 13 marzo.

Quando arriva sotto casa, lo aggrediscono brutalmente. Non con le mani, ma con delle chiavi inglesi da officina, le famigerate “Hazet 36”, ”fascista dove sei?!”, diventate il simbolo di una violenza politica che in quegli anni non risparmia nessuno. Colpiscono Sergio alla testa, ripetutamente. Poi scappano. Lo lasciano a terra, privo di sensi e riverso nel sangue, davanti agli occhi increduli di mamma Anita.

Un agguato organizzato nei minimi dettagli: a compierlo, quelli del servizio d’ordine della facoltà di Medicina di Avanguardia Operaia. Già, studenti di medicina, che nemmeno conoscevano Sergio ma sapevano bene quello che stavano facendo.

Da quel momento comincia l’agonia. Sergio entra in coma. Resterà in ospedale per 47 giorni. Un mese e mezzo di dolore per la famiglia, che nel frattempo continua a ricevere minacce. Sergio muore il 29 aprile di cinquant’anni fa, senza mai riprendersi davvero, lasciando un vuoto enorme.

La sua morte non fa rumore nell’opinione pubblica. In Consiglio comunale a Milano c’è addirittura chi, da sinistra, applaude. Il funerale viene ostacolato in ogni modo. Poi, fuori dalla comunità della destra politica e ad eccezione di pochissimi altri coraggiosi, il silenzio.
Silenzio e imbarazzo, perché la morte assurda di Sergio Ramelli non gravava soltanto sulle coscienze degli esecutori materiali, ma anche su quella enorme schiera di cattivi maestri che da anni giustificavano la violenza politica al grido di “uccidere un fascista non è reato”. 

Gli autori dell’omicidio verranno identificati soltanto diversi anni dopo, grazie ad alcuni pentiti e alla tenacia di pochi magistrati. Otto giovani, tutti universitari, militanti di estrema sinistra. Confessano quando non possono più sfuggire alla giustizia. Ma il processo si trascina a lungo, tra attenuanti e giustificazioni ideologiche.

Alcuni di loro faranno carriere brillanti, diventeranno medici affermati con la loro bella vita borghese e benestante. Quasi nessuno pagherà fino in fondo.

Ma la vicenda di Sergio Ramelli non è soltanto la storia di un ragazzo innocente ucciso per le sue idee. È il ritratto di un’epoca in cui l’intolleranza ideologica travolgeva tutto. In cui pensare diversamente dalla massa non era un diritto, ma una colpa. E in cui l’odio diventava legittimo, se colpiva il “nemico sbagliato”.

Ma questa storia non è solo memoria. È un monito.

Sergio Ramelli, cinquant’anni dopo, non è più un simbolo di parte. È il volto di un ragazzo. Uno come tanti. Con idee, passioni, sogni. Sogni che qualcuno ha deciso di spezzare a colpi di chiave inglese.

Sogni che oggi scegliamo di non dimenticare. Nel nome del coraggio. E della libertà.

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