Dai Gatti di Vicolo Miracoli a «Colpo Grosso», l’Umbertone nazionale si racconta: «Silvio Berlusconi non ci impose mai cosa dire e cosa non dire in TV»
Veronese di nascita, milanese di adozione, fiumano di origine coi genitori esuli, scappati dalla dittatura di Tito. In estrema sintesi, Umberto Smaila: ossia uno dei più grandi protagonisti del nostro spettacolo, con musica suonata ancora dal vivo e senza autotune, per celebrare soprattutto i più grandi cantanti italiani. «Ormai sono arrivato a comporre 37 colonne sonore per il cinema», afferma orgoglioso tra una pausa e l’altra delle sue innumerevoli serate in giro per il Paese. Comico della prima ora, insieme a Franco Oppini, Nini Salerno (entrambi suoi ex compagni di scuola) e Jerry Calà nei Gatti di Vicolo Miracoli, Smaila ricorda gli esordi al «Derby» e a «Non Stop»: «Altri tempi, epoca meravigliosa».
Per cosa rimpiangi maggiormente gli anni ’70?
C’era un desiderio di ribellione che colorava la società. La Democrazia Cristiana rappresentava un’idea ormai sorpassata, era il nemico comune che di tutti quelli che, in maniera diversa, volevano un cambiamento: rock ‘n roll, capelloni…
E oggi?
C’è solo uno sfrenato bipolarismo che ci attanaglia su ogni argomento e non perché ci si creda, ma in quanto lo richiedono i media, tv in primis.
In che modo le tv condizionano il pensiero?
Nei dibattiti televisivi si discute su quello che sarebbe giusto o sbagliato imponendo una scelta da una parte o dall’altra, come Guelfi e Ghibellini. Oltretutto chiamano sempre gli stessi: il pubblico sa già quello che succederà, la concezione di originalità non esiste più.
Quando avete iniziato voi in tv a «Non Stop» invece era proprio quella la regola principale.
Diretti da Enzo Trapani rivoluzionammo la tv. C’era una comicità non conosceva volgarità: eravamo lontanissimi dal dire qualsiasi parolaccia. Un modo di far ridere intelligente.
Cosa caratterizzava i Gatti di Vicolo Miracoli rispetto alla comicità di oggi?
L’umorismo surreale, condito di tradizioni classiche provenienti dai nostri studi liceali: per chi voleva capirle, nei nostri sketch non mancavano citazioni forbite. In quella maniera potevi permetterti di ridere su tutto.

Siamo finiti in una comicità volgare e condizionata dal politicamente corretto.
Ma poi cos’è davvero? I giovani sono i primi a non esserne attratti. È qualcosa che ci vuole tutti nello stesso unico pensiero, quindi non è giusto, è scorrettissimo. Non esiste nulla di più asfissiante e ingombrante di questo ritorno al conformismo, mascherato sotto un’egida di buonismo.
Non diciamolo ad alta voce, poi ci dicono che siamo irrispettosi.
Quelli che lo promuovono ultimamente stanno prendendo solo batoste da tutte le parti: lentamente si accorgeranno di aver creato tanto rumore per nulla. L’exploit si sta assopendo e tutto torna nella giusta proporzione. I valori sono altri.
Parliamo di «Colpo Grosso».
Fu una scelta coraggiosa. Barattai con i dirigenti Fininvest: lo faccio, ma lasciatemi una trasmissione parallelamente in modo da mantenere una doppia veste di diavolo e acqua santa. Così in quegli anni lavorai moltissimo, conducendo anche «Help!», «C’est la vie», «Babilonia».

Nonostante ciò, tutti ti ricordano sempre per «Colpo Grosso».
Quel programma contribuì a farmi diventare una specie di eternauta. Tutti sanno chi è Umberto Smaila e molta parte del merito è di «Colpo Grosso». Interpretavo in ogni puntata una canzone, così accumulai un repertorio immenso e da lì ebbi modo di fare quello che faccio ancora oggi.
Bisognava cogliere l’ironia della trasmissione.
C’era solo quella, ma naturalmente incontrammo detrattori in molti baciabanchi, gli stessi cattocomunisti che poi se la sarebbero presa con Berlusconi in ogni occasione. Qualche giornalista, come Beniamino Placido e Oreste Del Buono, seppe riconoscere l’originalità e la comicità di «Colpo grosso».
Lo seguivano in tanti oggi è replicato con successo, ma spesso viene accusato di maschilismo.
Nella cancel culture ci sono grandi della storia come Cristoforo Colombo, Horatio Nelson e Napoleone di cui si abbattono le statue. Se ci sono anche io, sono in buona compagnia, pazienza. Durerà poco questo conformismo: l’espace d’un matin, come dicono i francesi.
Il passaggio a Fininvest fu dettato dall’esigenza di continuare a esprimerti liberamente?
Certo. Con Berlusconi non avemmo mai un’osservazione su cosa dire e cosa non dire in tv. Anche questo mi fece diventare molto amico di Silvio, oltre che estimatore per tutto quello che ha fatto nella vita.
Il primo ricordo di lui?
Abitavo a Milano 2. Giorgio Medali, architetto Fininvest e mio carissimo amico, tornato da una riunione mi parlò per la prima volta del Cavaliere: «O è matto o è un genio: si è messo in testa di creare canali televisivi». Nacque una tv a uso e consumo solo per abitanti di Milano 2: un tg condominiale. Siccome l’invidia è inesauribile, questo non è piaciuto a tanta gente, ma chi ne disconosce il genio si imbroglia da solo.
Come ti rapporti oggi con il pubblico? Non hai paura di prendere posizioni, fare certe battute?
La paura è proprio quella che ci accompagna oggi: c’è il terrore di essere classificati come fascisti appena si appoggia il governo. È ridicolo. Purtroppo c’è la paura di etichette, specie nel mondo dello spettacolo, che vede tutti schierati e guai se esprimi un concetto diverso dal pensiero unico dominante. Basterebbe volersi tutti un po’ più bene e rispettarsi.
Cosa fa ridere Umberto Smaila?
Le caricature. Anche quelle disegnate: mi diverte per esempio il naso che Giannelli disegna a Conte facendolo sembrare Pinocchio. Mi fanno ridere il sarcasmo, il nonsense, l’umorismo surreale di Cochi e Renato e quello ebraico newyorkese di Woody Allen.
La tua città identitaria?
Verona è meravigliosa ed è sempre più bella: curata architettonicamente, riqualificata di continuo. Il fiume che la attraversa e la divide in due, i monumenti, il miglior vino italiano [l’Amarone, NdR] fanno di Verona una perla. Si dice che i veronesi siano tutti matti: può darsi, è per questo che mi ci ritrovo. Gente adorabile sempre pronta alla battuta.
Milano (e il Milan) però sono nel tuo cuore.
Lì ho ritrovato un modo di pensare molto simile alla mia famiglia, fatta di grandi pensatori, atleti. È una città che non teme paragoni nel mondo. E poi va sfatato un tabù: non è vero che i milanesi sono freddi e sempre di corsa. Semplicemente vanno a lavorare, «col cor in man».