Vespasiano, l’imperatore-soldato di Rieti che morì in piedi

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Busto di Vespasiano allo Château de Vaux le Vicomte, Francia, foto di Jebulon, Creative Commons CC0 1.0 Universal Public Domain Dedication

Molti assoceranno il nome “vespasiano” al gabinetto pubblico, che fino almeno agli anni ’70 era presente e utilizzato non solo a Roma ma anche in numerose città italiane. Gli ultimi vespasiani sono stati eliminati nella capitale proprio in occasione del Giubileo 2025, ma in realtà in altre città, come ad esempio a Torino, vennero smantellati tra gli anni ’60 e ’80.

Tuttavia, il pensiero raramente sfiora il fatto che i ben noti “vespasiani” devono il loro nome all’imperatore Tito Flavio Vespasiano, fondatore della dinastia Flavia, che nella cultura di massa è ingiustamente e unicamente ricordato per aver messo il vectigal urinae, la tassa sugli orinatoi, da allora denominati vespasiani. A Roma già esistevano molti bagni pubblici (non si usava infatti avere il bagno in casa) e le officine fullonicae, le attuali lavanderie o tintorie, avevano sempre bisogno di grandi quantità di urina: questa era molto utilizzata per conciare i pellami poiché contiene ammoniaca e nell’antichità non esisteva un processo industriale per ricavarla in qualche altro modo. Le lavanderie allora inviavano garzoni di bottega a farne scorta proprio nei bagni pubblici: non esattamente un incarico piacevole e ambito.

Vespasiano, dunque, pensò bene di introdurre una tassa sulla raccolta delle urine: in fin dei conti i fullonici si rifornivano gratuitamente di un bene prezioso come l’ammoniaca, e questo grazie alla presenza sul territorio di strutture costruite a spese dello Stato, gli orinatoi appunto. Quando il figlio maggiore ed erede di Vespasiano, Tito, si chiese se questo fosse un modo onorevole per fare soldi, si dice che l’imperatore gli abbia avvicinato una moneta sotto al naso, chiedendogli se puzzasse. Al no di Tito, Vespasiano gli fece notare che effettivamente, benché proveniente dall’urina, ‘pecunia non olet’ (“il denaro non ha odore”). La frase è ancora oggi molto usata per sostenere che il valore del denaro non è contaminato dalla sua provenienza.

È però un peccato ridurre la figura di questo importante imperatore romano solamente a questo insolito aneddoto storico, vediamo ora perché.

Vespasiano nacque nel 9 d.C. nei territori della Sabina, presso Reate (l’odierna Rieti, città identitaria), in una famiglia di origini non patrizie, infatti il padre, Tito Flavio Sabino, era un esattore delle tasse, mentre la madre, Vespasia Polla, apparteneva ad una nobile famiglia di Norcia. Intraprese appena ventenne la carriera militare e politica, distinguendosi nell’invasione della Britannia sotto Claudio e nel governo dell’Africa proconsolare. Nel 66 Nerone, che riconobbe il notevole talento militare di Vespasiano, lo incaricò di guidare la guerra in Giudea per reprimere la rivolta ebraica. Nel 69, mentre si trovava a Cesarea, venne proclamato imperatore, prima dall’esercito in Egitto e poi dalle sue truppe in Giudea. Le legioni d’Oriente prestarono il consueto giuramento di fedeltà ma Vespasiano incontrò immediatamente l’ostilità di Vitellio, che occupava il trono nel 69 e aveva dalla sua parte le legioni veterane della Gallia e della Germania, le migliori truppe di Roma. Nonostante questo, il sentimento a favore di Vespasiano si rafforzò rapidamente e gli eserciti della Mesia, della Pannonia e dell’Illirico si dichiararono presto a suo favore, rendendolo di fatto padrone di metà del mondo romano.

I soldati di Vespasiano entrarono in Italia da nord-est sotto la guida di Antonio Primo, sconfissero l’esercito di Vitellio a Bedriacum, saccheggiarono Cremona e avanzarono verso Roma, nella quale entrarono dopo furiosi combattimenti e una spaventosa confusione, durante la quale il Campidoglio fu distrutto dalle fiamme. Vespasiano a quel punto fu riconosciuto dal Senato e nominato console per l’anno 70. Nel frattempo, la guerra in Giudea fu lasciata nelle mani del figlio di Vespasiano, Tito, che sarebbe poi riuscito ad espugnare nello stesso anno Gerusalemme e a saccheggiarla completamente. Dopo il trionfo congiunto di Vespasiano e Tito sui giudei, ben raffigurato in uno dei rilievi dell’Arco di Tito a Roma, il Tempio di Giano venne finalmente chiuso e Vespasiano garantì la pace nell’Impero per i restanti nove anni, tanto che la pace di Vespasiano divenne addirittura un proverbio a Roma. Nonostante la distruzione totale di Gerusalemme, gli ebrei non furono mai perseguitati durante il regno di Vespasiano né durante quello di Tito ma vennero invece costretti a pagare il cosiddetto fiscus iudaicus, un provvedimento creato per convogliare a Roma una parte dei tributi versati dagli Ebrei per il sostentamento del tempio di Gerusalemme ma che garantiva una certa tolleranza.

Il sacco del Tempio di Gerusalemme, bassorilievo dall’Arco di Tito a Roma

Con l’immenso bottino proveniente dall’assedio della capitale giudea, Vespasiano diede avvio ad una straordinaria campagna di costruzione di opere pubbliche, a partire dall’Anfiteatro flavio – il Colosseo – il più grande e celebre anfiteatro del mondo antico, che fu inaugurato successivamente dal figlio Tito nell’80. Non solo il Colosseo: Vespasiano promosse un notevole ampliamento delle strade romane, in particolar modo dell’Appia, della Salaria e della Flaminia, l’erezione del Tempio della Pace, la ricostruzione del Campidoglio e di un nuovo foro. Tacito e Svetonio stigmatizzarono Vespasiano accusandolo di avarizia e di aver imposto eccessive tasse, ma la sua sembra essere stata in verità una gestione oculata e quasi illuminata delle finanze statali, che dovevano essere ricucite dopo le falde e gli immensi debiti provocati dal suo predecessore Nerone. Oltre alla politica economica accorta, Vespasiano fu decisivo anche per la Lex de imperio Vespasiani da lui promossa. Questa legge, ancora oggi conservata su tavole in bronzo presso i Musei Capitolini di Roma, svincolava l’imperatore dall’approvazione giuridica del Senato romano, rendendo la sua figura sostanzialmente indipendente e autonoma.

Oltre ad una riorganizzazione dell’esercito e della disciplina militare, questioni che al generale Vespasiano rimasero sempre a cuore, l’imperatore fu anche un inaspettato mecenate della cultura in tutte le sue forme. Egli favorì una importantissima rinascita culturale a Roma stanziando centomila sesterzi all’anno per sostenere il lavoro dei retori greci e latini, per incentivare i poeti e far fiorire le migliori maestranze artistiche. Grazie ai suoi finanziamenti, ad esempio, venne restaurata la Venere di Coo, uno dei più importanti capolavori del suo tempo. Da sottolineare è la figura di Marco Fabio Quintiliano, uno dei pensatori più influenti dell’epoca, che fu il primo insegnante pubblico a godere del favore imperiale. Durante questo periodo, Plinio il Vecchio scrisse la sua opera più importante, la Naturalis Historia, dedicata al figlio dell’imperatore Tito, che ancora oggi rappresenta una delle fonti più importanti sulla storia romana. Fino all’anno della sua morte, avvenuta nel 79, Vespasiano si considerò di fatto un soldato, dall’indole schietta, dai modi semplici: secondo quanto narra Svetonio, negli ultimi istanti di vita avrebbe tentato di alzarsi dal letto sostenendo che “un imperatore deve morire in piedi”. Tale frase a suggello della vita di un uomo fiero e orgoglioso, pronto ad andarsene con onore e soddisfazione per i risultati raggiunti. Plinio disse di Vespasiano che la grandezza e la maestà non avevano in lui prodotto altro effetto, fuorché di rendere il potere di fare del bene eguale al desiderio di attuarlo. Il potere e la gloria non fecero dimenticare a Vespasiano le sue umili origini, che gettarono le basi per l’ascesa al potere della dinastia Flavia che regnò sull’Impero per ventisette anni.  Insomma, pace, stabilità, prosperità economica e culturale e una saggia gestione del potere hanno l’impero di Vespasiano. Ben più dei (certamente utili) vespasiani.

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