L’indiscrezione arriva direttamente da Dagospia: dopo 12 anni il direttore del Giornale Alessandro Sallusti si dimette dalla guida del quotidiano. Per candidarsi a sindaco di Milano al posto di Albertini? Per dirigere le testate del gruppo Angelucci (Libero e Il Tempo)? Tutti abbottonati, questi sono solo rumors e lo stesso cdr del Giornale confessa di non saperne nulla. Intanto vi proponiamo la sua intervista cult del 2015 (Redazione)
Il direttore de il Giornale si è “sbottonato”, svelando i lati più intimi della sua vita. L’ostinato difensore di un pensiero “altro”, controcorrente e contro le mode imperanti, notoriamente impassibile, si racconta.
Gli esordi, ovvero: un direttore già da bambino. «Il primo giornale penso di averlo disegnato per le vie di Como, a 9 o 10 anni. Faccio il mestiere che ho sempre sognato di fare, più per fortuna che per merito, questo è davvero un dono di Dio. Ero un bambino inquieto e insoddisfatto. Per questo ho preso tante di quelle botte da mio padre…».
Il passato ingombrante. «Mio nonno è stato un ufficiale dell’esercito, passato alla Repubblica Sociale, poi fucilato. Questa storia ha sempre gravato sulla mia famiglia, come un peso insormontabile».
Il Battaglione San Marco: il militare necessario. «Non sono mai stato uno studente modello. Ho fatto l’Istituto tecnico e in anni in cui tutti erano ammessi agli Esami di Stato, mi fermarono. Una vergogna. Immediatamente mi diressi allo sportello del distretto militare. Mi dissero che se firmavo come volontario per il Battaglione San Marco avrei potuto partire dopo due settimane. Firmai. Il militare ha cambiato la mia vita in modo determinante, per questo penso che sia necessario ripristinare la leva obbligatoria. E quando penso ai nostri marò, beh, penso che questo Paese ha ormai perso il senso dell’onore».
Con Don Giussani sulla spider rossa. Considerazioni sulla fede. «Ho cominciato all’Ordine, che era il giornale più scalcagnato di Como, legato alla Curia, che dopo poco, in effetti, chiuse. Fui dirottato a Il Sabato, dove ero noto più che altro perché andavo in redazione con la spider rossa. Così un giorno Don Giussani viene a far visita alla nostra redazione e mi pretende. “Mi porti a fare un giro sulla tua spider rossa?”. Certo, dico io. In macchina, però, per vincere il mio imbarazzo, dico a Giussani che non sono di Comunione e Liberazione. Lui scoppia a ridere, “ma cosa vuoi che mi importi, io non so neanche se credo in Dio!”. Giussani era davvero un uomo straordinario. Mi ritengo un cattolico. Ma non sono un uomo baciato dalla vera fede».
Ersilio Tonini e l’esistenza di Dio. «Quando diventai caporedattore di Avvenire fui convocato a Ravenna dall’allora presidente del giornale, il Cardinale Ersilio Tonini. Di fronte a una minestrina – è sempre stato secco, magrissimo – mi disse, “il suo è un compito difficile perché dovrà mediare tra centinaia di Vescovi che la pensano diversamente su tutto. Anche sull’esistenza di Dio”».
1987: gli anni con Indro Montanelli. «Il Giornale non era un quotidiano, era un salotto. Assistere alle riunioni di redazione, con Montanelli a fare da regista sornione, era come andare al cinema gratis. Ricordo che un giorno il direttore, verso mezzanotte, passò da noi giovani, che parlavamo di donne. Scoccò la battuta folgorante: “non è che a me non mi tira più, è che non so più quando mi tira!”».
1994: il grande scoop. «Quando ero al Corriere della Sera pubblicai la notizia del premier Berlusconi indagato. Era la prima volta che veniva indagato un Presidente del Consiglio, giornalisticamente era uno scoop. All’epoca il direttore era Paolo Mieli. Il giorno dopo successe il finimondo, con perquisizioni della polizia e interrogatori. Nascosi le carte e i nastri che denunciavano l’indagine nella borsa di mia moglie. Poco dopo si aprì il caso di Primo Greganti, tesoriere della sinistra, e Mieli fu costretto a scusarsi in diretta Rai. La differenza di trattamento tra il caso Berlusconi e il caso Greganti mi fece capire che per me era ora di lasciare il Corriere: non sopportavo più il clima opprimente, il fiancheggiamento delle procure. Volevo la mia libertà».
“Libero” nasce davanti alla salamella. «Conobbi Vittorio Feltri quando ero direttore de La Provincia. Dopo un incontro pubblico, ci offrirono delle salamelle. Lì mi disse, su due piedi, “vieni con me a fondare un giornale?”. Accettai. Cominciò allora una avventura editoriale entusiasmante. Il concetto giornalistico di Feltri? Eccolo: quando scrivi di una persona dì che è uno stronzo, quando parli di un Paese dì che è un Paese di merda».
100mila copie per una Maserati. «All’inizio non avevamo un soldo. Ci fu anche un imprenditore riminese, Stefano Patacconi, che mise un po’ di soldi dentro Libero, ma poi si suicidò. Ci aiutarono gli Angelucci, ma il giornale viaggiava intorno alle 20mila copie. Un giorno, un po’ abbattuto, Feltri mi getta un depliant che presentava la nuova Maserati. Nacque una sfida. Se fossimo arrivati a 100mila copie mi avrebbe regalato una Maserati. Le superammo. Ma la Maserati durò poco: l’ho venduta perché consumava troppo e perché era ridicolo girare in Maserati».
Berlusconi e Renzi: differenze al telefono. «Ho girato per 12 giornali e svariati editori, beh, nessuno è più liberale di Silvio Berlusconi e di suo fratello Paolo. Il difetto di Berlusconi è che è troppo buono e rispettoso degli avversari, altrimenti sarebbe ancora Presidente del Consiglio. Telefona quando hai un problema, è di una solidarietà infinita. Al contrario, Matteo Renzi telefona quando è arrabbiato. Un giorno mi ha telefonato incazzato nero, insultandomi. Diciamo che sono modi diversi di fare politica».
1 dicembre 2012: l’arresto e la vergogna. «Una vicenda pazzesca, che la dice lunga su questo Paese. La Digos fece irruzione durante una riunione del Giornale, interrompendola, per procedere all’arresto per diffamazione e omesso soccorso. In realtà, mi aspettavano all’uscita del Giornale, perciò dormii tre giorni in redazione, scoprendo, tra l’altro, il pied a terre di Montanelli… Così, furono costretti a irrompere. Mi scortarono per portarmi a casa. Pretesi il carcere. Uscii con i poliziotti, che mi portarono in Questura con l’accusa di evasione. Intervenne perfino il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per commutare la pena da detentiva in pecuniaria. Mentre mi riportarono a casa mi telefonò Berlusconi: “senti Alessandro, abbiamo capito la tua posizione, ma se evadi ancora ti faccio fare il giro del quartiere a calci nel sedere”».
Juventino represso. «Sono della Juventus, lo ammetto. Un giorno, un po’ per sfida, andai a San Siro con Berlusconi. Milan-Juventus. Dopo cinque minuti segna il Milan. Tutti esultano, io mi esprimo con un tiepido applauso. Le televisioni Sky mi riprendono. Poco dopo sono beccato da un sms di mio figlio, “Infame”».
Amo Daniela (mica la Santanché). «Amo Daniela e stimo la Santanché, che non amo. Stare con Daniela è semplice, stare con Santanché è molto complicato».
Un po’ di cronaca: Grecia. «Sono tra quelli che hanno sperato per il “No” al referendum. Giusto per vedere la Merkel in difficoltà. Ma adesso mi pare che Tsipras abbia già calato le braghe».
Caso Berlusconi. «Berlusconi è un uomo di genio. Non è mica caduto per le “Olgettine”, come vogliono farci credere, ma perché non voleva allinearsi a Francia e Germania».
Isis. «A forza di non essere noi stessi, siamo noi che abbiamo issato le bandiere dell’Isis. Sono per le radici cristiane nella Costituzione europea e per i Crocefissi nelle scuole».
Gay. «Uno Stato non deve tutelare l’amore: altrimenti perché non posso sposarmi con due donne o con il mio cane? Compito di uno Stato è tutelare l’unione che produce nuovi cittadini, i figli. Per il resto, è giusto che ogni persona si ami come desidera. Quando mia nipote mi confessò di essere lesbica le risposi: “abbiamo qualcosa in comune, ci piace la stessa cosa!”».