Come ogni anno, l’approssimarsi del Giorno del Ricordo ci induce a riflettere; forse, ora che la politica sta sempre più diventando una sfida al ribasso tra cialtroni e parolai, mentre la paura e la rassegnazione dilagano, disaminare il dramma di quella parte d’Italia diventa essenziale prerogativa della Cultura avversa ai freddi e sterili salotti televisivi.
La tragedia delle foibe e il dramma dell’esodo sono fatti fin troppo noti ai lettori di questa testata. Per tale ragione, la mia voce vuole aggiungere un tassello, piccolo ma non meno importante, al Muro di questa tragedia nostrana.
Una storia bustocca, una storia della mia città.
L’abbandono dei territori istriani, giuliani e dalmati iniziò nell’autunno del 1943 e si concluse nel 1956; due gli spartiacque storici: la firma del Trattato di Parigi nel febbraio 1947 e del Memorandum di Londra nell’ottobre del 1954.
In ragione di questi trattati veniva imposta alla comunità italiana residente in Istria, Giulia e Dalmazia la difficile scelta di perdere la cittadinanza e divenire apolidi in quella che sarebbe diventata la Jugoslavia – con tutte le conseguenze del caso – ovvero abbandonare la propria casa e la propria terra e trasferirsi in Italia.
Molti, se non tutti, coscienti delle atrocità titine, scelsero l’Italia.
Nella provincia di Varese le prime testimonianze di presenza di esuli risalgono all’inizio del 1948, tra Besozzo e Varese.
Già in quell’anno nasceva nel capoluogo il Movimento Istriano Revisionista (MIR), comitato sorto con il difficile compito di organizzare gli aiuti per gli esuli residenti in provincia. Fulgido esempio di amore e impegno tra uomini segnati dalla stessa triste sorte.
Con alterne fortune, ma sempre sostenuti da una sensibilità locale ben diversa e migliore rispetto ad altre zone d’Italia, le comunità istriane, giuliane e dalmate si consolidarono in provincia nel decennio successivo.
I fatti che a noi interessano fanno data a partire dal 1961.
Nella primavera del 100° anniversario dell’Unità d’Italia, il segretario generale dell’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati, d’intesa con i dirigenti locali, prese in esame la possibilità di realizzare a Busto Arsizio un “borgo” per gli esuli ancora ricoverati nei vari campi profughi sparsi nella penisola. Fondamentale in questo frangente fu l’entusiasmo dell’allora sindaco di Busto Arsizio, Gian Pietro Rossi, che accolse positivamente la proposta e, nei primi mesi del 1962, portò il Consiglio Comunale a deliberare tutte le strategie necessarie all’edificazione del villaggio. Il progetto presentato in Comune prevedeva, in località Borsano, la costruzione di duecento alloggi, una scuola e un asilo infantile, per il costo di un miliardo di lire, importi che sarebbero state finanziati a mezzo della Legge n. 1219/1960 sulla proroga delle provvidenze assistenziali a favore dei profughi.
Il piano si sviluppò in alcuni mesi, in modo di assicurare, attraverso il lavoro prima e la casa poi, l’effettivo inserimento degli esuli nel tessuto economico e sociale della città.
I primi diciotto alloggi vennero consegnati nel dicembre 1965 e a seguire gli altri.
Sorse anche un Patronato femminile, presieduto dalla contessa Garavaglia (già presidente di quello milanese), volto ad occuparsi dell’assistenza ai profughi. In questa occasione furono distribuiti pacchi dono con generi alimentari e arredi per dare il benvenuto alle nuove famiglie bustocche.
Finalmente, il 15 ottobre 1966, con sei mesi di anticipo sulla data prevista, il nuovo quartiere giuliano dalmata di Busto Arsizio, Borgo San Biagio (Santo Patrono di Dignano), venne inaugurato alla presenza dell’allora ministro del Lavoro, Sen. Giacinto Bosco.
La popolazione residente in città, allora come oggi, guardava con simpatia questi nuovi concittadini, offrendo loro appoggio e aiuto, perché “più italiani degli italiani”, per nascita e per scelta.
Nel settembre 1972, con l’inaugurazione della Casa del Fanciullo dedicata a Giovanni Soglian, provveditore agli studi della Dalmazia giustiziato dopo l’8 settembre 1943, il Borgo San Biagio poteva dirsi terminato. La realizzazione di questa importante istituzione educativo-assistenziale completò le opere sociali e scolastiche già esistenti nel complesso edilizio.
Col passare degli anni, molti si sono trasferiti altrove e al loro posto sono giunti gli italiani di Libia che lasciavano la ex colonia, quindi sono stati accolti gli albanesi nei primi anni ’90 e adesso gli sfortunati esuli in fuga dai sanguinosi affari a stelle e strisce.
Busto Arsizio, città laboriosa ed instancabile, ogni 10 febbraio ricorda, col coeur in man, che nessun italiano è straniero e, ancor di più, che nessun uomo merita di essere cacciato dalla sua Terra, dalla sua Storia, dalla sua Cultura, dalla sua Identità.

