Le violenze di Tito e i “desaparecidos” italiani

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Quando diciamo che un popolo ricorda, in realtà stiamo dicendo che un passato è stato attivamente trasmesso alla generazione presente e che questa generazione lo ha accettato, e in qualche modo fatto proprio, come “dotato di senso”. Al contrario, un popolo dimentica quando la generazione che è in possesso del passato non lo comunica alla successiva o quando questa rifiuta quanto viene a ricevere e non lo trasmette a sua volta. Una memoria si perde quando avviene una rottura in questo processo di trasmissione, quando questo accettare e fare proprio un contenuto del passato –dotarlo cioè di “senso” – non trova più le condizioni perché possa realizzarsi. È dunque necessario conoscere la storia e trasmetterla alle nuove generazioni, soprattutto quando l’orrore degli eventi può assumere valore pedagogico.

La pagina più dolorosa della storia della Seconda Guerra Mondiale è senza dubbio quella che riguarda le stragi di civili. In esse si rivelò tutto l’orrore di una guerra combattuta non solo contro gli eserciti nemici, ma contro l’intera popolazione. Certamente, anche i bombardamenti aerei contro le città, che negli anni 1940-1945 raggiunsero livelli di straordinaria intensità, possono essere considerati come stragi di civili, culminate nei massacri di Hiroshima e Nagasaki. Ma gli uomini, le donne ed i bambini che morirono in quei bombardamenti furono vittime di strumenti bellici guidati, sì, da uomini, ma che colpivano a caso, e da lontano.

Ci furono invece altre stragi, compiute dalle SS e dalla Wehrmacht, nel corso delle quali gli uccisori ebbero davanti a sé le loro vittime, che avevano scelto essi stessi, spesso in base alla razza o a una ideologia.

Le responsabilità individuali, perciò, furono molto gravi. E nessuna di quelle stragi avvenne per errore, come accadde invece, frequentemente, nel corso dei bombardamenti aerei. L’ordine di uccidere veniva dato dai comandi militari ed era eseguito dai soldati, perché la morte di un gruppo di civili fosse di ammonimento all’intera popolazione.

Le stragi non finirono con la guerra. Si era nutrito troppo odio perché esse potessero cessare di colpo. In tale contesto si viene ad inserire la tragedia delle “foibe”. Migliaia di italiani uccisi e gettati nelle grandi fenditure carsiche ed altre centinaia di migliaia di persone costrette ad abbandonare le loro case, le loro occupazioni, la loro terra segnata dal sacrificio del lavoro di anni, esprimono una tragedia di dimensioni immense che ha inciso indelebilmente sulla geografia umana delle terre giuliano-dalmate.

Per decenni, il dramma complessivo, vissuto dalle genti della Venezia-Giulia, non è stato adeguatamente rappresentato e doverosamente inserito nella memoria della società e nella storia del Paese. Per lungo tempo, di questa vicenda si parlava solo a Trieste e nelle comunità dei profughi.

Da poco, si è compreso che essa è un capitolo importante della nostra storia nazionale. Oggi, gli studiosi stanno cercando di fare chiarezza sulle ragioni di questo silenzio, interrogandosi sul perché e sul come l’Italia democratica e repubblicana non si sia preoccupata per lungo tempo dei suoi “desaparecidos”. L’argomento non era, forse, “politicamente corretto”, meglio dunque ignorarli, i nomi non erano degni di una corona di fiori.

Ma che cosa sono le “foibe”, questi luoghi ormai tristemente noti per essere divenuti enormi cimiteri naturali: sono le tombe degli italiani vittime della prima «pulizia etnica» slava, torbido e selvaggio giustizialismo frutto del nazionalismo slavo misto al comunismo. Le loro gole paurosamente nere davanti a uomini, donne, giovani, vecchi, preti, povere comparse di un «olocausto» volto ad uccidere l’italianità.

La foiba –dal latino fovĕa «fossa»– è una cavità superficiale con ingresso a strapiombo, caratteristica dell’altopiano carsico, con una voragine imbutiforme più o meno profonda che smaltisce le acque di superficie.

Per le popolazioni slovene e croate dell’entroterra triestino ed istriano la foiba era tradizionalmente il luogo ove si era soliti buttare ciò che non serviva più. Gettare un uomo in una foiba significa, quindi, trattarlo alla stregua di un rifiuto. Le vittime, prelevate di notte, senza distinzione di età, di sesso, di ceto, di condizione, venivano picchiate a sangue e spesso seviziate. Poi, bloccate ai polsi e ai piedi tramite filo spinato, legate in gruppi. I massacratori sparavano al primo del gruppo che ruzzolava nella foiba spingendo con sé gli altri, che, molto spesso ancora vivi o solo feriti, agonizzavano per giorni.

Oggi, nessuno storico nega che sia avvenuto questo “Olocausto”. La vera discordia sulle foibe riguarda la quantificazione del fenomeno. Non esiste una cifra ufficiale delle vittime. Qualsiasi cifra potrebbe essere errata, sia per eccesso che per difetto. Ciò che è certo è che già da tempo Tito intendeva esercitare il controllo esclusivo sulla “Resistenza” nella Venezia-Giulia e nel Friuli. Gli Alleati dovevano avere l’impressione che “tutti” nella Venezia-Giulia e nel Friuli fossero favorevoli all’annessione alla Jugoslavia. Le foibe, dunque, fanno parte di una strategia volta a colpire tutti coloro che si opponevano all’annessione delle terre contese alla nuova Jugoslavia. Ogni italiano, che osa ribellarsi alla dominazione slava, è un fascista e dunque da epurare.

Di tutta questa immane tragedia delle “foibe titine” e dell’esodo forzato di italiani non si era, fino agli anni Ottanta, mai parlato. Neppure i testi scolastici ne hanno fatto menzione per moltissimi anni, al punto che l’italiano medio, puntualmente informato su tutti gli eccidi che hanno accompagnato la Seconda Guerra Mondiale, ignorava quanti drammi si fossero consumati in Venezia–Giulia.

Oggi, il “Ricordo della tragedia delle Foibe e dell’Esodo” dei 300 mila Giuliani, Fiumani, Dalmati finalmente ha trovato voce e riconoscimento nelle istituzioni.

Il 10 febbraio ricorre l’anniversario della firma del Trattato di pace di Parigi che nel 1947 ha fissato i confini tra Italia e Jugoslavia. Con legge dello Stato italiano, del 2004, questa data è stata scelta come “Giornata del Ricordo”, dedicata agli avvenimenti che si consumarono tra il fine del 1943 ed i primi mesi del 1947 lungo i confini orientali.

Compito dell’l’Europa oggi è quello di liberarci da un passato del quale siamo stati troppo a lungo prigionieri. Affinché ci resti sempre «di monito» la coscienza che la tragedia degli italiani di Venezia- Giulia, Istria e Dalmazia fermentò dalla piaga dei nazionalismi, della gretta visione particolare e disprezzo dell’altro, della acritica transazione della propria identità etnica o storica. Perché, seppur, vie e spazi pubblici, intitolati ai martiri delle foibe non sono più una eccezione nella toponomastica delle città italiane, ancora, purtroppo, non si può parlare di memoria condivisa, anche se è facilmente constatabile che alcuni steccati, fortunatamente, hanno iniziato a cadere.

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