La cancel culture in Italia se la prende col colonialismo

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La statua dell'ascari dal monumento ai Caduti d'Africa di Siracusa. Foto cc 4.0 Tonio.86

“La cancel culture arriverà in Italia con l’attacco al nostro colonialismo”. Questo lo scriveva in tempi non sospetti il sottoscritto, quando tutte le avvisaglie – per chi voleva vederle – già facevano presagire quali sarebbero state le mosse della guerra culturale wokeista contro l’identità nazionale italiana. Mosse che del resto seguono copioni già scritti. Bastava guardare quello che altre nazioni “più avanzate” già stanno portando avanti nel loro auto-genocidio culturale e fare il mutatis mutandis. E infatti ora una legge sottoscritta dalla dem Laura Boldrini, dal M5S Riccardo Ricciardi, dal segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni su proposta dell’ANPI e dalla “rete Yekatit 12-19 febbraio” chiede che il nostro paese si cosparga il capo di cenere istituendo una “Giornata della memoria per le vittime del colonialismo”, data che dovrebbe cadere il 19 febbraio.

Dunque, anziché onorare i caduti di Adua o dell’Amba Alagi, anziché ricordare le decine di migliaia di coloni italiani emigrati in Africa per cercare lavoro e dignità, come cantato da Giovanni Pascoli ne “La Grande Proletaria si è mossa”, la sinistra italiana si accoda all’internazionale wokeista per chiedere l’autoflagellazione del paese.

Un libro fascista? No, il discorso del socialista Giovanni Pascoli per celebrare l’impresa italiana in Libia, nel 1912

Del resto, che schifo questi proletari… la sinistra in cachemire e Birkenstock oramai è talmente lontana dalle esigenze della gente da doversi inventare nuove battaglie. “Il popolo non ha pane? Dategli monumenti da abbattere” è il motto della sinistra mondialista da quando ha abbandonato le bandiere rosse dei diritti reali (lavoro, casa, istruzione, sicurezza sociale etc.) per abbracciare quella arcobaleno dei diritti… “creativi”. Un motto che coglie due piccioni con una fava: distrae le masse fornendogli un pogrom morale in cui scatenare i propri istinti più bassi (la cancel culture) e accontenta servilmente i veri padroni, quelli che foraggiano generosamente ogni iniziativa wokeista ai quattro angoli del mondo. L’oicofobia, l’odio per la propria casa, così cresce, alimentato da politici in cerca di qualcosa da dire.

Sfortunatamente la storia coloniale italiana, bistrattata da un secolo e mezzo di maldicenze e falsi storici, è stata raccontata come un “colonialismo straccione” di cui fa tanto chic parlar male. Troverà quindi molti pochi coraggiosi difensori a sostenere le vere ragioni storiche del nostro paese. La realtà, dimostrata per tabulas da studiosi di vaglia come Alberto Alpozzi, infatti è molto differente da questa narrazione autolesionista e basterà pensare alle parole di ammirazione pronunciate dal negus Haile Selassie nei confronti delle opere realizzate in soli cinque anni dai coloni italiani in Etiopia, dall’affetto con cui gli eritrei hanno sempre guardato all’Italia, durante i 50 anni di durissima occupazione… post-coloniale etiope oppure al semplice fatto che le Nazioni Unite decisero di affidare proprio all’Italia il mandato per avviare la Somalia all’indipendenza. Già, perché fino al 1960 fu l’ONU a incaricare l’Italia – nazione sconfitta nella Seconda guerra mondiale – di continuare la propria opera di modernizzazione della Somalia (compresa la parte britannica) fino all’indipendenza del paese. Con grandi mal di pancia a Londra…

Certo, la storia coloniale italiana è costellata anche di episodi spiacevoli per la nostra peculiare sensibilità da XXI secolo. Sono su quelli che si appunta la narrazione piagnona e il “penitenziagite!” della sinistra wokeista. Ma si tratta della solita inversione valoriale tipica dei social justice warrior, quegli stessi che pretendono di trattare un gigante come Cristoforo Colombo da “genocida” o “schiavista” e buttar giù le sue statue, come quella dell’esploratore Vittorio Bottego, pregevole opera di Ettore Ximenes a Padova (una vicenda esemplare, raccontata da Enrico Petrucci). Quelli che erano per l’appunto episodi vengono trasformati nel paradigma di un’intera epoca, da cui consegue che siccome l’episodio è condannabile allora tutta la vicenda storica che gira loro attorno va buttata via: bambino e acqua sporca.

Ma non siamo noi a poter giudicare la Storia. È la Storia che ci giudica. I processi vanno fatti al nostro miserabile presente – che di esami di coscienza ne avrebbe a iosa da fare – e non al passato, che può tutt’al più essere un monito, ma non certo un imputato.

Giudicare ciò che avveniva nel 1897 o nel 1912 o nel 1936 con gli occhi della nostra attualità è semplicemente ridicolo ed è una malattia di mente tipica dei popoli occidentali rincitrulliti dal wokeismo. Tant’è che non sentirete mai un libico dire che occorrerebbe istituire una “giornata per la memoria degli italiani razziati dai pirati barbareschi e portati schiavi in Nordafrica” (circa un milione) o un etiope chiedere d’abbattere le statue di Haile Selassie e dei suoi predecessori, i quali per costruire l’impero attorno ad Addis Abeba hanno sterminato intere popolazioni del Corno d’Africa, con un conto dei morti a sei zeri.

La Storia è fatta così. È lastricata di sangue ed episodi tragici. Focalizzarsi su essi con la morale dei nostri tempi (e delle nostre latitudini: occorrerà anche prendere atto che la gran parte del mondo non ha la stessa bussola morale di una Boldrini o un Fratoianni, presto o tardi) è ridicolo e infantile. L’oicofobia è un disagio di mente, che lucidamente studiosi come Roger Scruton o Spartaco Pupo hanno definito come una regressione a un’eterna adolescenza. È una sindrome di Peter Pan che ha trovato una ragione politica. È ora che qualcuno dica a questi signori di crescere. E guai a loro se toccano le statue…

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