Caporali e operai: una legge nel 1928 abolì il modello padroni-schiavi

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Foto di Stefano Ferrario da Pixabay

La Puglia, in particolare la zona della Capitanata dove vige un sistema di agricoltura intensiva, si attesta tra le aree a maggior rischio capolarato in Italia. Un sodalizio che sempre più spesso unisce la criminalità organizzata e lo sfruttamento dei lavoratori. Un giro d’affari da 17 miliardi di euro che coinvolge 400 mila braccianti in tutto il territorio nazionale, pagati in media 3 euro per ogni occasione.

Il Caporale, figura storica di intermediazione tra proprietà agricola e manodopera – rigorosamente poco specializzata – si occupa anche di reclutamento, organizzazione del lavoro, gestione delle paghe.

A seguito di diverse denunce che hanno confermato una larga diffusione del fenomeno, nel 2016 è stato necessario approvare la legge anti-capolarato che prevede la “descrizione del comportamento punibile” e l’inasprimento delle pene già previste dall’articolo 603-bis (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro).

C’è da dire, però, che questa pratica criminale è una vecchia piaga del sistema liberale, già conosciuta e combattuta dal Governo italiano a partire dal 1926 grazie alla legge n. 563 ovvero la “Legge Sindacale”. Attraverso l’attuazione dell’Art. 16 della predetta legge e di una serie di norme giuridiche varate tra il 1926 e il 1938 atte a “Contemperare secondo equità gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori tutelando, in ogni caso, gli interessi superiori della produzione”  venne attuata una vera e propria rivoluzione sia in campo economico che sociale.

Furono due, in particolare, i provvedimenti più incisivi in termini di organizzazione del lavoro e tutela dei lavoratori: i contratti collettivi di lavoro e gli uffici di collocamento gratuiti per i lavoratori disoccupati.  I primi dovevano essere obbligatoriamente redatti e approvati dal Sindacato di categoria (ente che provvedeva anche al continuo miglioramento della formazione dei lavoratori attuata attraverso gli organi d’istruzione professionale) prima di iniziare qualsiasi rapporto di lavoro subordinato.

Gli elementi essenziali di questi contratti stabilivano: il periodo di prova del lavoratore, la misura e le modalità di pagamento della retribuzione, l’orario di lavoro, il riposo settimanale, il periodo annuo di riposo feriale retribuito, i rapporti disciplinari, la cessazione dei rapporti di lavoro per licenziamento senza colpa, il trattamento dei lavoratori in caso di malattia o richiamo alle armi (Legge n.1130/1926). 

Invece per combattere il fenomeno del caporalato, seguendo i principi sanciti dalle dichiarazioni XXII e XXX della “Carta del Lavoro”, si utilizzarono gli uffici di collocamento  (Legge n. 1103 del 28 marzo 1928).

Questi enti funzionavano a 360 gradi: servivano sia a controllare il fenomeno dell’occupazione  e della disoccupazione (indice complessivo della produzione e del lavoro) che a tutelare gli operai dai caporali. L’imprenditore, infatti, poteva assumere la manodopera soltanto per mezzo di tali uffici, scegliendo tra gli operai iscritti; viceversa quest’ultimi, per cercare un impiego, avevano l’obbligo di avvalersi degli stessi: in caso contrario erano previste sanzioni pecuniarie per entrambi.  In tal modo l’imprenditore non poteva più assumere gli operai attraverso dei mediatori privati, che lucrando sui bisogni dei lavoratori, esercitavano una vera e propria funzione di parassiti.

Per di più, con la “Riforma del Collocamento” attuata con il decreto-legge n. 1934 del 21 dicembre 1934, gli uffici assunsero anche la funzione pubblica di controllo: attraverso gli organi territoriali preposti,  accertavano che l’obbligo di avviamento al lavoro per il tramite degli uffici di collocamento fosse rispettato da tutti i lavoratori. Solo in casi di urgente necessità – allo scopo di evitare danni alle persone alle materie prime, o agli impianti – fu data facoltà ai datori di lavoro di assumere direttamente la mano d’opera con l’obbligo, però, di darne comunicazione  entro tre giorni all’ufficio di collocamento competente.

Successivamente, nel 1935, il Governo sancì un’ulteriore regola per gli imprenditori: la richiesta di manodopera non doveva essere più nominativa ma numerica, indispensabile ai fini di un’equa distribuzione del lavoro tra gli operai ed evitare qualsiasi rapporto di clientelismo. Per i datori di lavoro, tra l’altro, vigeva l’obbligo di denunciare entro 5 giorni, sempre presso gli uffici competenti per territorio e per categoria, i lavoratori che per qualsiasi motivo cessavano il rapporto di lavoro. Anche in questo caso l’azione dello Stato fu lungimirante: se il lavoratore veniva licenziato ingiustamente aveva facoltà di ricorrere presso la “Magistratura del Lavoro”, organo competente nella risoluzione delle controversie tra datore di lavoro e operai. Ovviamente queste leggi – previste dal Codice Corporativo e del Lavoro – valevano sia in Italia che nelle Colonie, sia per i coloni che per gli autoctoni, abolendo così anche forme di schiavitù o servitù della gleba nell’Africa Orientale Italiana.

Tutto questo cessò di esistere il 14 settembre 1944 quando il Governo Badoglio con il decreto n. 287 abolì tutte le leggi (comprese quelle anti-capolarato) che avevano preso forma nella Carta del Lavoro ripristinando il sistema liberale a quello corporativo e riproponendo quel principio economico alla base della teoria liberista basato sull’espansione del singolo individuo – senza limitazioni di sorta – anche a scapito dei diritti altrui e della giustizia sociale.