Che noia il bluff mitologico di “Achille Sauro”…

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Prestigiatore. Le mani nascondono il trucco, il tocco, l’oggetto. Il trasformismo nasconde la polvere del nulla. Achille Vauro è un trucco di magia bianca di Gucci. Se intende farci scandalizzare, ricordi, vista la visibilità che ha, che non abbiamo ancora un piano vaccinale adeguato e siamo costretti, un anno dopo dal primo lockdown totale, a ricorrere ancora a un lockdown, oppure si ricordi delle pazzie di Guido Keller. Altrimenti farà la fine della rana crocifissa di Kippenberger.
Achille Vario appare a Sanremo e scompare alla fine del festival. Achille Vauro, in realtà, è un’illusione di normalità, un flash momentaneo e abbagliante che non ha alle spalle il sapere del teatro di De Filippo, né la barcollante lucidità di un tizio terminale nascosto tra gli “eh già” del vecchio Vasco Rossi. Non c’è coltivazione nella voluta causalità. Non parla di periferie drogate, non è prosecuzione del disagio dell’Amore tossico di Caligari. Non è lo schizzo di sangue sul muro sparato da una siringa. Achille Vauro non ha la forza di Renato Zero. Vuole fare il glam rock? Accontentando i crismi dei malati capricci odierni, per quanto mi riguarda, può anche fare Claudio Monteverdi. Tanto vale…
Achille Vauro non esiste, esiste la sua intenzione, per altro vista e rivista: Achille Sauro. È un bluff. È un essere mitologico: metà Achille, metà Vauro, entrambi colti dallo sforzo di essere forzatamente, sempiternamente, provocatori in un’estetica acchiappa consenso che non ha mai la nobiltà della trasgressione, della rappresentanza sottoculturale, non genera cultura o sottocultura, della carne dipinta in un’anima spersa in qualche lotto metasovietico. Egli incarna la perfetta normalità globale, oggigiorno, quella dell’ambiguità sessuale, dei confini inesistenti, del limite da superare, dell’uguaglianza sradicata. Che noia pelosa. Diteci altro, fateci altro, per favore.
Achille Vauro è qui per farci parlare di sé, per essere legittimato e ci sta riuscendo. Come sta riuscendo a rianimare in me, atto del tutto insperato, il primo Vasco Rossi. Ti chiedo scusa Vasco. Insomma ancora i tatuaggi in faccia, il bacetto col maschietto, il vestitino nuovo. Il quadretto preistorico è bell’appesso al(l’Achille) Muro di un tempo che sta facendo estinguere gli uomini, altro che la glaciazione (delle idee). Quando rinascerà un Lucio Battisti, crederò a qualche forma di rivoluzione.

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Emanuele Ricucci è nato a Roma il 23 aprile 1987. Lavora per la comunicazione di Vittorio Sgarbi, di cui è tra gli assistenti, ed è collaboratore per la comunicazione del Gruppo Misto Camera dei deputati (NI-U-C!-AC). Scrive di cultura per Libero Quotidiano, per Il Giornale e per il mensile CulturaIdentità. Ha scritto, tra gli altri, per Il Tempo e Candido, mensile di satira fondato nel 1945 da Giovannino Guareschi. È autore di satira ed è stato caporedattore de Il Giornale OFF, approfondimento culturale del sabato de Il Giornale e nello staff dei collaboratori “tecnici” di Marcello Veneziani. Ha studiato Scienze Politiche e scritto cinque libri: Diario del Ritorno (Eclettica, Massa 2014, con prefazione di Marcello Veneziani), Il coraggio di essere ultraitaliani. Manifesto per una orgogliosa difesa dell’identità nazionale (edito da Il Giornale, Milano 2016, scritto con Antonio Rapisarda e Guerino Nuccio Bovalino), La Satira è una cosa seria (edito da Il Giornale, Milano 2017) e Torniamo Uomini. Contro chi ci vuole schiavi, per tornare sovrani di noi stessi (edito da Il Giornale, Milano 2017). Questi ultimi prodotti e distribuiti in allegato con Il Giornale. Antico Futuro. Richiami dell’origine (Edizioni Solfanelli, Chieti, 2018, scritto con Vitaldo Conte e Dalmazio Frau) e, da ultimo, Contro la Folla. Il tempo degli uomini sovrani (con critica introduttiva di Vittorio Sgarbi). Dal 2015 scrive anche sul suo blog Contraerea su ilgiornale.it. È stato direttore culturale del Centro Studi Ricerca “Il Leone” di Viterbo ed è attualmente responsabile dell'Organizzazione Nazionale di CulturaIdentità

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