Dal primo amore per Jacopo della Quercia, a Raffaello, il pittore che salverà la bellezza come missione civile, fino al concepimento di una visione: il Partito della Cultura. Vittorio Sgarbi, figura essenziale per il patrimonio italiano, ci racconta il suo punto di vista sul magmatico presente dell’arte. Cosa abbiamo fatto di male per meritarci una banana appiccicata al muro con del nastro, ultima “opera” di Cattelan? Una roba del genere ha la dignità di una critica sociale o è semplice merda?
Abbiamo legittimato per un intero secolo l’orinatoio di Duchamp. Con la banana di Cattelan non c’è nessuna differenza, si tratta di due espressioni della stessa assenza di aura dell’arte, in nome di una provocazione che trasforma il gesto dell’artista in un gesto sacro. Cattelan è un prolungamento del filone inaugurato da Duchamp.
Sei stato l’unico a tributare Leonardo nei cinquecento anni dalla morte con uno spettacolo che ha fatto più di 60mila spettatori e riempito centinaia di piazze e teatri italiani. Perché l’Italia si e dimenticata del suo genio?
Sono state fatte alcune iniziative sporadiche e marginali a Venezia e a Firenze, senza avere, però, la forza della grande mostra; il comitato che doveva realizzarla, infatti, è stato insediato nel 2018, con un tempo troppo breve per concretizzare una mostra importante. Si è convenuto, di conseguenza, di fare un accordo sensato con la Francia che vedeva Leonardo celebrato al Louvre, il museo più importante del mondo, e Raffaello celebrato a Roma. Mi sembra un buon compresso, vista la situazione. Siccome io sono il più noto di quelli che si sono occupati di queste mostre, il mio spettacolo ha avuto larghissimo consenso e il mio libro (ndr, Leonardo. Il genio dell’imperfezione, La nave di Teseo) chiude l’anno, ma è semplicemente una testimonianza all’interno di una convezione internazionale. L’Italia si è mossa nei limiti delle piccole iniziative che hanno messo in calendario e che non sono memorabili.
La Bellezza non sembra più parte fondante della costruzione matura della vita sociale ed è percepita come fattore alieno ad essa. Se si dovesse ripartire da un grande pittore per stimolare la rinascita civile della Bellezza, da chi si potrebbe farlo?
Da Raffaello, il più straordinario interprete della Bellezza che si possa immaginare, molto più di Leonardo. Si può ripartire dalle Scuderie del Quirinale e da Palazzo Ducale di Urbino, che ospiteranno le celebrazioni
per i cinquecento anni dalla sua morte.
È sempre più necessario dare vita alla tua idea, quella di fondare il Partito della Cultura Italiana. Una battaglia che avevi condiviso anche con Cultura Identità quando firmasti l’editoriale del primo numero
L’idea del PCI o Civiltà Italiana, una denominazione che ho inventato io e che ho proposto alla Meloni, è quella di allargare Fratelli d’Italia con un nome nuovo, come l’Msi divenne Alleanza Nazionale. Essere, pertanto, la componente legata ai valori della politica della cultura all’interno di un polo abbastanza distratto, secondo i grandi modelli delle istituzioni di partito che erano legate a valori ideologici, ideali, è una cosa sicuramente importante da fare, in nome dei principi liberali, dei valori di identità. Io sono pronto a partire, con il vantaggio di essere un’icona pop. Avere una figura carismatica che si lega a dei principi condivisibili da molti, compone l’idea per cui io sono “evocato”. Metto a disposizione le mie qualità naturali che richiedono, però, anche una struttura organizzativa di base, come quella di un partito, con una serie di militanti e di riferimenti territoriali. Tutto quello che io, come solista, non sono in grado di fare. Non ho ancora trovato un partner come è stato Casaleggio per Grillo, una figura che dia una dimensione strutturata allo slancio emotivo che viene da un leader. Sto anche tentando di applicare le mie qualità nell’amministrazione, avendo fatto il sindaco, per dimostrare, con gli atti compiuti, di non essere solo una vox clamantis in deserto. Il PCI sarà bene che sia presente ai prossimi appuntamenti elettorali.
Qual è stato il primo artista che ti ha folgorato all’inizio della tua carriera?
Lo scultore Jacopo della Quercia. Scrissi della sua memorabile scultura dedicata a Ilaria del Carretto, conservata a Lucca, il pezzo, forse, più intenso sulla letteratura critica, e su cui ho costruito un’interpretazione molto emotiva e partecipata.
Qual è stato il rapporto con i tuoi maestri?
Tra i maestri cito, prima di tutti, mio zio Bruno Cavallini, insegnante e preside, che è stato il mio primo maestro di letteratura, e a cui ho dedicato un premio letterario a Pordenone. Poi all’università ho trovato, fortunatamente, Francesco Arcangeli, un grande letterato e un grande storico dell’arte, primo allievo di Roberto Longhi. Non sono riuscito a conoscere Longhi poiché è morto quando mi sono iscritto all’università, nel 1970, ma sono stato molto vicino ai suoi allievi come Briganti, Zeri, lo stesso Arcangeli, il primo di tutti loro per età, classe 1914. La tradizione longhiana, legata al suo percorso di riconoscimento delle opere come principio filologico di accertamento del vero, verum ipsum factum, la formula di Gian Battista Vico, è anche il metodo su cui si basa la critica d’arte che io ho coltivato. Inutile scrivere teorie generali se non si ha la coscienza e la certezza dell’opera, quindi il primo atto è quello del riconoscimento. Questa lezione di Roberto Longhi è stata interpretata in maniera efficace, e in parte autonoma, dai suoi allievi. Alcune cose di Longhi sono state perfettamente trasmesse da loro e altre sono state delle innovazioni, anche molto fertili, come quelle di Arcangeli, della Padanìa nata con Longhi, con l’idea di un tramando che va da Wiligelmo a Morandi, e che incarna una dimensione culturale, identitaria. Quella prima generazione di allievi di Roberto Longhi, la più vicina a lui, è quella nella quale io mi sono formato.
A Sutri, dove sei sindaco, hai portato molti nomi illustri, hai creato un museo importante, hai condotto la città su tutta la stampa, ed ora, anche tra i borghi più belli d’Italia. Possiamo teorizzare un modello Sutri?
Sutri è un’operazione titanica di un matto come sono io. Essendo piccolo il luogo, io esercito una specie di dominio dittatoriale, utile a contrastare la mediocrità della democrazia che permette a chiunque di candidarsi, e ovviamente vengo contestato. Sto facendo il possibile nel terreno più funesto e arido. La moglie di Borsellino, che venne a trovarmi a Salemi, mi disse che io incarnavo, come sindaco, la “funzione del missionario”. Io sono un missionario. A Salemi ho creato l’antimafia della Bellezza, ho fatto diventare San Severino Marche una città d’arte e ora, a Sutri, in un anno e mezzo, ho portato un’economia nuova con il Caffeina Christmas Village, ho condotto la città ad essere uno dei borghi più belli d’Italia, ho aperto un museo, Palazzo Doebbing, con opere di grandi maestri, insomma, ho fatto ciò che in cinquantanni nessun’altra sindacatura normale avrebbe fatto. Non scelgo luoghi per fare il sindaco che godono già di una loro forte identità, vado in territori inesplorati, sconosciuti, come un missionario, appunto, e li rendo noti e importanti. Eppure non sono soddisfatto. A Sutri sono troppo incrostate le posizioni politiche preesistenti a me; è un ‘impresa che abbiamo compiuto in condizioni atmosferiche pessime. Però le abbiamo compiute: una sola persona ha prevalso sull’inerzia di tutti gli altri. Sono stato costretto ad andare contro tutti, talvolta, ma per riuscire a governare in una situazione sommamente sfavorevole che abbiamo, comunque, cercato di contrastare.