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L’ex tabaccaio di Milano e l’oste del lodigiano hanno vissuto e vivono un calvario
Legittima difesa. Articolo 52 del codice penale. “Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Letta così, sembrerebbe la norma giuridica più chiara del mondo: chi difende se stesso (o altri) è scriminato, a patto che lo faccia a determinate e ragionevoli condizioni. Quali? L’attualità del pericolo e la proporzionalità della reazione. E qui però casca l’asino, perché è proprio in queste quattro paroline che si insinuano preconcetti ideologici e sete di carriera da parte di certa magistratura, che di fatto rendono questa legge una fra le più “interpretabili” del nostro codice. Dunque, diventa d’obbligo una domanda: esiste una formula magica per scrivere questa norma rendendola totalmente impermeabile alla discrezionalità delle toghe? Molto probabilmente la risposta è no. Per quanto ci si possa impegnare, non è possibile riformulare questa legge in modo tale che possa davvero impedire a pm e giudici di disporre della vita di cittadini perbene. Tentativi in questo senso ne sono stati fatti, ma purtroppo non hanno portato gli esiti sperati. E allora come se ne esce? Duole doverlo ammettere, ma la verità è che tutto rimarrà com’è. D’altra parte, il nostro è un Paese che si è costituito su logiche ben precise e inscalfibili con al fondo un unico comune denominatore: la sottomissione assoluta dell’individuo nei confronti dello Stato. Al singolo, dunque, non può e non potrà mai essere riconosciuta nessuna libertà d’azione o di valutazione, nemmeno quando la posta in gioco è la sua stessa vita, perché la sua intera esistenza è concepita solo ed esclusivamente all’interno della cornice sociale di cui fa parte. Solo lo Stato può intervenire, tramite le forze dell’ordine, per sanare una situazione di “homo homini lupus”. Dunque, chi non accetta questa logica e decide di fare da sé, si colloca automaticamente al di fuori di questa visione e ne dovrà pagare inevitabilmente lo scotto attraverso anni e anni di calvario giudiziario. Se chi si difende è fortunato e durante la reazione non commette nulla di vagamente interpretabile, allora dovrà “solo” soffrire insieme alla propria famiglia tutte le pene psicologiche legate all’interminabile processo. Al contrario, se il suo non è un tipico caso di scuola o se non può permettersi un buon avvocato, potrà solamente – come ogni buon suddito che si rispetti – rimettersi alla clemenza della Corte. Se a ciò si aggiunge il carrierismo di chi accusa, che passa inevitabilmente per vittorie processuali a tutti i costi, ecco che il quadro generale ci restituisce davvero poche speranze. La verità è che o si cambia la cultura e il sistema di questo paese, oppure l’elenco delle vittime – così ben rappresentate e supportate da Unavi – si allungherà sempre di più. Ecco il perché di questa bella iniziativa, più importante di qualsiasi battaglia politica.
Scrivo queste righe non come semplice osservatore ma come figlio di una vittima che si è difesa uccidendo un bandito. No, non è un controsenso perché mio padre, Giovanni Petrali, ex tabaccaio di Milano, è una vittima. Vittima di rapina e violenza prima e del sistema giudiziario poi che lo ha condannato in primo grado e tenuto in scacco per dieci lunghi anni prima di assolverlo definitivamente. E anche la sua famiglia è vittima, io stesso sono vittima. Perché in un sistema che non tutela il singolo, vittime siamo tutti.
Dal 2003 in avanti, ho rivissuto il caso di mio padre con tutte le vittime di “illegittima difesa” che si sono succedute negli anni. Oggi, in particolare, con l’oste del lodigiano, Mario Cattaneo e la sua famiglia che stanno eroicamente sopportando un calvario giudiziario che non meritano. Questo quadro è dedicato anche a loro. E, in qualche modo, anche a tutti coloro che pensano che questo paese sia di chi lavora, di chi ama, di chi difende sé stesso, i propri cari e il frutto delle proprie fatiche. Queste persone si riconoscono subito, non servono dieci anni di processi per assolverle. Basta guardarle negli occhi.