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I mali dell’università sono noti: “il familismo baronale, la corruzione nei concorsi e l’accesso alla carriera accademica che non sempre avviene secondo merito, ma per effetto di un complicato meccanismo di selezione basato sull’appartenenza a corporazioni di tipo ideologico-politico, territoriali e disciplinari”, ma “alla denuncia non fa mai seguito una proposta costruttiva”. È quanto sostengono in un lungo articolo, apparso oggi su La Verità, Simonetta Bartolini, docente di Letteratura italiana all’Università Internazionale di Roma, e Spartaco Pupo docente di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria, due accademici da sempre “non allineati” al pensiero egemone e convinti che bisogna considerare l’università non più come bacino di voti, ma come “una bandiera identitaria per restituire all’Italia quel prestigio che la sua storia reclama”. I due professori avanzano “proposte minime, a costo zero, facilmente applicabili”.
Il prossimo governo, tanto per iniziare, dovrà mettere mano all’Anvur (Agenzia Nazionale per la Valutazione del sistema Universitario), che nel tentativo di rispondere alla raccomandazione europea di adeguamento ad un comune criterio di assicurazione di qualità negli studi superiori, ha di fatto “trasformato gli accademici in burocrati ai quali si chiedono scartoffie piuttosto che qualità della ricerca e della docenza”. C’è poi il problema dell’accesso alle riviste scientifiche, indispensabili per fare carriera universitaria e che formano una specie di imbuto in cui passano solo in pochi e non sempre meritevoli. In molti casi – affermano Bartolini e Pupo – riesce a pubblicare sulle riviste cosiddette “di fascia A” solo “chi faccia parte di una scuola influente, che garantisce l’accesso agli allievi che il professore, direttore della rivista o appartenente al comitato scientifico della stessa ha stabilito possano fare carriera universitaria, a prescindere dal merito effettivo degli stessi”. Questo crea una “discriminazione grave soprattutto rispetto alla qualità”. Da qui la richiesta di una valutazione più alta per le monografie “ovvero a quegli ampi ed elaborati studi che richiedono anche un paio di anni di lavoro che attualmente, sia in sede di Abilitazione Scientifica Nazionale sia in sede di valutazione periodica, è quasi irrilevante”.
Per quanto riguarda la capacità del sistema universitario di formare i giovani “si deve prendere atto a 23 anni di distanza dalla sua introduzione del fallimento della riforma che trasformò il ciclo unico in un doppio ciclo, il 3+2 ovvero laurea triennale e laurea magistrale”. L’idea – rilevano Bartolini e Pupo – non ha funzionato: “gli iscritti all’università sono diminuiti e l’occupazione di chi ha fatto il ciclo breve non è aumentata”. Ancora peggiore è stato “il livellamento verso il basso nella formazione universitaria: la licealizzazione del triennio con relativo abbassamento della qualità della formazione; la diminuzione dell’impegno formativo degli studenti i quali ormai considerano la triennale una specie di traghetto necessario per il vero percorso formativo costituito dal corso di studio magistrale”. Gli studenti arrivano alla fine del percorso triennale con una formazione assai bassa, data “la sostanziale genericità dei corsi di studio triennali”. Posto che il sistema 3+2 è difficilmente scardinabile, “sarebbe opportuno introdurre immediatamente un voto minimo di laurea triennale per permettere l’accesso alla magistrale (non meno di 108/110) e ciò sarebbe in linea con l’ottima proposta di eliminare il test d’ingresso a Medicina”. Secondo i due professori si potrebbe “passare dal 3+2 al 2+3 se si lascia invariata la genericità formativa del primo ciclo”, riformulare i corsi biennali “secondo due o tre linee guida essenziali, relative alle macro-aree di formazione tali fa fornire allo studente una solida preparazione”. Inoltre occorre rendere i percorsi triennali tradizionali “più specialistici, limitando in maniera drastica il passaggio da un’area formativa all’altra”.
Infine resta la questione del diritto allo studio-occupabilità. Posto che la cultura scientifica in Italia registra tassi di interesse da parte degli studenti non eccellenti e che dunque dovrebbe essere incrementata, resta un dato di fatto che “l’unica eccellenza che l’Italia può vantare nel ranking mondiale degli atenei è detenuto dalla Sapienza per gli studi sull’antichità classica, seguita dalla Normale di Pisa per lo stesso settore”. Occorre, per i due professori, “rassegnarsi al fatto che l’Italia eccelle negli studi umanistici e dunque, senza trascurare gli altri, puntare su di essi per creare eccellenze che non solo elevino gli atenei italiani nelle graduatorie internazionali, ma attirino in Italia studenti dall’estero. Ciò è realizzabile se si creano condizioni di occupabilità significative relative al nostro patrimonio culturale”. L’idea è di offrire ai laureati uno sbocco professionale adeguato attraverso la digitalizzazione del nostro patrimonio culturale: “si renderebbero più appetibili le facoltà umanistiche, oltre a quelle informatiche, si coniugherebbe sapere scientifico e umanistico e si creerebbero sinergie interessanti che finirebbero per incrementare anche quello scarso interesse per gli studi matematico-scientifici di cui siamo carenti”.
La sfida vera consiste nel restituire all’università quel ruolo formativo “che non è istruzione, ma sapere fondamentale” per accedere con gli strumenti migliori al mondo del lavoro.