Ambrogio Sparagna: «Cantare in dialetto uno stornello è un segno identitario che unisce tutte le comunità»

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Roma, Auditorium Parco della Musica 05 01 2018. Ambrogio Sparagna e la OPI Orchestra Popolare Italiana. ©Musacchio&Ianniello / Fondazione Musica Per Roma ************************************************************************ La seguente foto può essere utilizzata esclusivamente per l'avvenimento in oggetto o per pubblicazioni riguardanti la Fondazione Musica per Roma ************************************************************************

La musica popolare non è solo memoria, ma un’energia viva che attraversa il tempo, un legame profondo tra passato e presente capace di dare voce alle identità di un territorio. In un’epoca di omologazione culturale, c’è chi ha fatto della sua riscoperta e valorizzazione una vera missione. Tra questi, Ambrogio Sparagna, uno dei massimi esponenti della musica tradizionale italiana, che con il suo lavoro di ricerca e divulgazione ha riportato alla luce strumenti, canti e ritualità dimenticate. In questa intervista Sparagna racconta il valore della tradizione, il ruolo dei giovani e la forza identitaria della musica popolare.

La musica popolare è il cuore pulsante di una comunità e lei, alla sua valorizzazione, ha dedicato tutta la vita. Qual è il ruolo che ha effettivamente, oggi, nella società contemporanea?

Quando parliamo di musica popolare dobbiamo fare riferimento alle musiche e alle identità territoriali. È chiaro che la musica pop ha una sua omologazione generale, per cui i generi massificati tendono a rendere gli individui omogenei. Altrimenti, una serie di valori e segni non entrerebbe nell’uso corrente. Per come la intendiamo noi, la musica popolare è legata ai paesi italiani ricchi di storia: dalla dorsale dell’Appennino alle aree più interne, fino alle isole. Questi luoghi hanno sempre avuto una forte caratterizzazione nell’uso della poesia e del canto in dialetto. Che è già un elemento distintivo, perché rispetto alla massificazione totale della lingua italiana che viviamo oggi, il canto popolare rappresenta un antidoto. Il dialetto è di per sé un segno identitario e la dove è ancora veramente forte, si trova nelle situazioni più marginali, lontane dai centri abitati, che vivono la realtà drammatica dello spopolamento. Ma è qui che suonare l’organetto o cantare uno stornello può essere ancora oggi un segno di identità forte, capace di tenere unite le comunità. Partendo da qui, tutto sta prendendo una direzione più ricca, varia e articolata. E tanti ragazzi ne fanno una ragione della propria ricerca poetica ed espressiva.

I giovani, quindi, hanno un ruolo importante anche per la vitalità della musica popolare?

Sì, perché non è mai successo che ragazzi diplomati in strumenti classici nei conservatori si avviassero poi a studi approfonditi sulle pratiche degli strumenti tradizionali, come la zampogna e la lira calabrese. Sono strumenti che fanno parte del grande patrimonio della musica popolare italiana. Oggi, ed è un fenomeno tipicamente italiano nel panorama europeo, sono proprio i giovani a tramandare le cosiddette tradizioni. Adesso, per esempio, che ci stiamo avviando verso il periodo quaresimale, c’è una grandissima espressività popolare per quanto riguarda i rituali paraliturgici, collegati alla Settimana Santa.

E cosa accade?

Se oggi ci sono ancora tante realtà di giovani che cantano le polifonie in latino dei tanti salmi di Davide, i lamenti di Geremia e tutto il repertorio della liturgia quaresimale, è proprio perché i giovani vivono l’esperienza del cantare in modo antico come un segno di continuità con la storia dei luoghi da cui provengono. Sono attaccati a una parte del loro mondo che non vogliono abbandonare, pur vivendo le contraddizioni della società contemporanea. Questo mondo non è fatto solo di anziani, depositari di una cultura antica, ma anche di questi ragazzi che, con le loro contraddizioni, energie e voglia perpetuano queste esperienze musicali che si esprimono essenzialmente in una dimensione comunitaria.

Oggi, quando si parla di strumenti musicali, si pensa sempre a chitarra, basso e batteria, mentre invece esiste una pluralità di strumenti della tradizione che ha un valore straordinario.

Le racconto un’esperienza personale. Nei primi anni Ottanta ho avviato, insieme con altri collaboratori, una ricerca in Calabria per verificare se esistesse ancora la cosiddetta lira calabrese. Siamo riusciti a trovare un unico musicista, a Mirto di Siderno, Giuseppe Fragomeni. Abbiamo realizzato un documentario. All’epoca lavoravo all’università a Roma con il mio professore, Diego Carpitella, che mi disse: “Tutto questo rimarrà nella storia, perché fra poco non ci saranno più suonatori e tutto finirà”. Io pensavo che, se avessimo fatto attività di comunicazione per farla conoscere, ci sarebbe stato un recupero di questo strumento. Lui, invece, riteneva che il mondo cui questi strumenti erano legati non esistesse più. E invece oggi ci sono centinaia di suonatori di lira in Calabria, anche molto virtuosi. Quando ho registrato Fragomeni, non avrei mai potuto immaginare la varietà di sviluppi armonici e melodici che si potessero trarre da questo strumento.

Questo, nel concreto, cosa significa?

Anche se manca quella realtà rurale in cui questi strumenti generavano occasioni di ritualità condivisa, oggi hanno trovato una nuova funzione: fanno parte della pratica musicale di tanti giovani. Quello che emerge con forza è che questi strumenti possiedono un’energia, una potenza e un’originalità che affascina. Rispetto all’omologazione di tanti che suonano con chitarra e basso, questa è una realtà meravigliosa. In generale, il mondo della pratica musicale è così vario che non si può chiuderlo in una massificazione generale. Oggi questi giovani sono forse gli unici “antagonisti” di una società che, per citare Pasolini, ha perso il senso della storia.

Qual è invece la percezione della musica popolare italiana all’estero?

Gli europei, così come gli americani, quelli che noi chiamiamo “forestieri”, amano l’Italia. Ho tenuto concerti in giro per il mondo, dalla Russia alla Cina, fino a Francoforte, al Salone Internazionale del Libro, dove abbiamo suonato davanti a 2.600 spettatori al Teatro dell’Opera: tutti cantavano, esultavano e ballavano al ritmo dei nostri strumenti. Siamo amatissimi all’estero, forse più di quanto lo siamo in Italia. E tutto questo fa parte di quel patrimonio di amore che, da Goethe in poi, ha caratterizzato il modo in cui gli stranieri vedono la nostra cultura musicale. Il grande letterato tedesco parlava dei musicisti italiani, dei gondolieri che improvvisavano poesie a braccio, di tutti coloro che incontrò nel suo straordinario viaggio nel nostro Paese. Tutti hanno raccontato il fascino di questa musica.

La sua città identitaria?

Per il mio lavoro non posso averne una, perché ho fatto talmente tante ricerche in Italia che ho vissuto, per mia fortuna, questi cinquant’anni in tanti luoghi diversi. Vengo da un paese, Maranola [vicino Formia, provincia di Latina, NdR], ed è come se l’avessi voluto ritrovare ovunque, dal Nord al sud. Poi vivendo a Roma dal 1976 è chiaro che è la mia città, ma porto con me tutte le storie e le esperienze dei luoghi che ho incontrato. Non smetterò mai di ripeterlo: l’Italia è eccezionale. A tutti racconto del fascino della cultura italiana e sono oggi più che mai deciso a difendere il ricco patrimonio culturale del nostro Paese. Da 20 anni sono direttore dell’Orchestra Popolare Italiana dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, che ha raccolto in questi anni decide di migliaia di spettatori che hanno sempre apprezzato l’espressione di una grande ricchezza e di un patrimonio che nella città eterna viene condiviso con tutti.

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