Baudelaire, poeta della città sovrappopolata, fuggiva dai suoi creditori passando da un caffè all’altro o rifugiandosi in un circolo di lettura. Shelley si compiaceva della brulicante città densa di voci. Dickens si lamentava dell’assenza di rumore nella strada che gli impediva di lavorare.
Si pensa che il grigiore, la tristezza, la monotonia di una città colpiscano le anime meste, relegandole in una solitudine senza sbocco. Può accadere. Ma vi sono anche spiriti liberi e avventurosi che nella città trovano curiosità e stimoli per una loro dimensione esistenziale.
Il filosofo francese Emmanuel Lévinas pensava che era meglio vivere vicino agli uomini che vicino alle cose. Non sopportava la muta e indolente presenza della natura, ma preferiva il ciarliero, confuso, indecifrabile enigma dei volti degli uomini.
Nel mondo alcune anime belle credono di essere libere se vivono lontano da luoghi affollati. Forse temono tumulti o disordini metropolitani. Preferiscono la vita in società semplici e minuscole che l’eterno modello pastorale offre alle loro nostalgie. Sono convinzioni che nascono dall’abbandono a un facile intimismo e che riducono l’esistenza a poca cosa, rinunciando ad attese e volontà che rimangono inespresse.
Nella città esiste una imprevedibile alterità, punti di attraversamento non meno importanti di un radicamento stratificato. Chi pensa ad un salvataggio dall’orrore delle derive esistenziali della città non può trovare conforto nell’ideologia previdenziale di un presunto ritorno alle origini.
Lo spirito delle selve appartiene a coloro che esaltano spontaneità e immediatezza, valori che possono uscire dai confini, per così dire, naturali. Allora la città si ricompone in un luogo di identità e di appartenenze rinnovate.