L’anno senza misteri: diario da Procida

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La cultura legata alla Tradizione ha, nei riti collettivi legati alla Settimana Santa, il momento in cui, Fede, devozione popolare, storia di una comunità, si fondono fra loro. Usanze, spesso nate come voto e ringraziamento, in seguito alla fine di avvenimenti nefasti come guerre o carestie.

Questo anno, molti di noi italici di questa epoca, si sono risvegliati dalla illusione di un mondo senza frontiere, in cui, oltre a poter trasferire persone e beni, attraverso i cinque continenti,  potevano azzerare le molteplici culture, in un turbine in cui il “pianeta levigato”, come lo definisce Règis Debray in “Elogio delle Frontiere”, centrifuga ed annulla tutto quanto abbia concorso a creare le ”cicatrici” che hanno costruito la nostra storia.

Non ci saranno, quest’anno, nella splendida Procida, il mio luogo del cuore, come nel resto della penisola, le struggenti usanze del Giovedì Santo con la Processione degli Apostoli e la Processione dei Misteri del Venerdì Santo, il cui potente mezzo espressivo fa mostrare agli isolani, con vigore e drammaticità, la loro vita in relazione al mare, al sentimento religioso, al senso di comunità.

Il silenzio e la sensazione di vuoto saranno ben diversi dai silenzi che accompagnano lo svolgersi toccante delle cerimonie religiose.

Sin da bambino ho visto come una festa l’approdo sull’isola e ho goduto della magia che offrono i Riti della Settimana Santa. Nei primi anni ’70, stando fermo e vedendo scorrere il corteo, come la pellicola di un film, lo sguardo, durante la lunga narrazione della Processione dei Misteri, era catturato dalle tavole imbandite e dagli animali vivi trasportati. Ricordo il memento dell’inquietante squillo della tromba, che annuncia in testa l’arrivo della processione, poi, nello svolgersi della narrazione, il frastuono del tormentoso rumore delle catene trascinate sul lucido e squillante piperno, infine la statua del Cristo Morto, in un silenzio di vita e di morte.

Nella scenografia singolare di Procida, terra e mare, architetture e persone, colori e profumi, si combinano in una fluida organicità che intride l’ambiente. Le vie solitarie si irradiano come arterie di un organismo vivente, divenendo palcoscenico su cui si snoda un percorso di fatica, di passi cadenzati e brevi, ne’marcia, ne’ sfilata. La discesa delle Tavole dei Misteri dalla Terra Murata, il luogo più alto dell’isola, la acropoli, è come lava di un vulcano, investe tutto e tutti.

La Tradizione si celebra come trasfigurazione collettiva, costruita per parti, tutte necessarie: un nucleo, raccolto intorno alla Abbazia, pronto a discendere e disperdersi per l’isola. Tutti sono attori e spettatori di una storia immutabile e, al tempo stesso, sempre nuova: sovrapposizioni di colori, movimenti, chiaroscuri, rumori, evocazioni, dolori, sorrisi, scandite gerarchie, in uno sfondo turchino.

Una fatica, frutto di passione, di sfida con se stessi e con gli altri, metafora della vita. Le linee dei volti di vecchi, adulti, bambini, si intrecciano con luoghi, manufatti e con gli sguardi di chi assiste alla processione, in un tripudio di mistero e tenerezza.

Il mio sguardo è rivolto con affetto verso la straordinaria intensità e dignità dei volti, veri protagonisti di questo evento, ritratti in preda al gioco, alla stanchezza, alla tensione e alla devozione verso la propria terra.

Tornerà la primavera e tornerò sulla mia isola.