Marcello Mastroianni, quell’italianità più invidiata al mondo

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Si sono appena accesi i riflettori della diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Per l’occasione pubblichiamo il ritratto di un grande del cinema italiano, Marcello Mastroianni, pubblicato sul numero di settembre di CulturaIdentità e dedicato ai 90 anni del Festival del Cinema di Venezia e ai grandi divi italiani controcorrente (Redazione)

Una faccia da italiano qualunque. E ne andava fiero. Sebbene si sarebbe potuto dire tutto tranne che avesse un aspetto ordinario. Ma non amava essere definito divo e ancor meno un latin lover. Anni dopo si difese da questo appellativo prendendo in giro la sua carriera e le sue conquiste sentimentali in una spassosa intervista, ospite del Dick Cavett Show: «Latin lover? I’m simpatico».

Marcello Mastroianni/Snàporaz, come amava soprannominarlo Federico Fellini, è stato un interprete dal talento straordinario. Il Marcello Rubini, paparazzo aspirante scrittore, in una Roma licenziosa e dalle atmosfere decadenti. Rubò persino il ruolo a Paul Newman, tanto caldeggiato dal produttore De Laurentiis che per La Dolce Vita (1960) avrebbe voluto un cast tutto internazionale. Ma Federico Fellini ne rimase conquistato tanto da plasmarlo “alter ego” e personificazione del suo realismo magico.

L’aria sorniona, malinconica, quel suo essere un inguaribile viveur lo hanno reso, suo malgrado, l’icona italiana più invidiata al mondo.
«Marcello, come here, hurry up!». Ed è in quella famosa fontana, tra le braccia giunoniche della valchiria Anita, in una fredda notte romana, che da “uomo qualunque” si consacra immagine immortale de “La Dolce Vita lungo il Tevere” tanto vagheggiata da Hollywood.

“T-chi snà un puràz”, l’acronimo romagnolo “tu sei nato poveraccio”. Così Fellini lo incitava a riprendere a lavorare sul set quando la flemma “fieramente ciociara” dell’attore entrava in conflitto con l’iperattività del regista. Snàporaz, da nomignolo fumettistico diventò poi, personaggio. Il protagonista di un altro capolavoro del maestro (forse il meno apprezzato dalla critica) La città delle donne (1980).

In realtà, a far scoccare la scintilla tra loro fu Giulietta Masina, l’amatissima moglie e musa del maestro. Aveva conosciuto Marcello a teatro e li fece incontrare nella loro villa a Fregene. Attore già affermato, Mastroianni aveva lavorato con registi del calibro di Luchino Visconti (Le Notti bianche del 1957) e Mario Monicelli (I Soliti ignoti del 1958), ma fu il successo planetario de La Dolce Vita a farne una star internazionale. Diretto da mostri sacri come Anghelopulos, Robert Altman, Bruno Barreto fino  a  Marco Ferreri, da  Bellocchio  a  Michalkov. E poi ancora De  Oliveira, Germi,  Eduardo De Filippo,  Vittorio De Sica,  Terence Young,  Lina Wertmüller.

Nato nel piccolo comune di Fontana Liri, il 26 settembre 1924, in provincia di Frosinone. Figlio di un falegname Ottorino Mastroianni e di Ida Irolle. Già da piccolissimo interpretò diversi ruoli in film come I bambini ci guardano (1943) di Vittorio De Sica. Una vita coronata di successi e storie d’amore, sposato però una sola volta con l’attrice  Flora Clarabella, ebbe una serie di relazioni come quella con l’attrice americana  Faye Dunaway  e con la diva francese  Catherine Deneuve. L’ultima sua compagna è stata la regista  Annamaria Tatò. Due volte premiato in America con i prestigiosi  Golden Globe, otto  David di Donatello, otto Nastri d’Argento, un  Palma d’oro  a Cannes come migliore attore, due  Coppe Volpi  alla Mostra del Cinema di Venezia che gli attribuì, per meriti artistici, anche un  Leone d’Oro  alla carriera. Autodidatta, parlava e recitava perfettamente in inglese, spagnolo e francese.

“In ogni suo film –  così Umberto Eco scriveva dell’artista – entrava in scena dando l’impressione di non sapere chi e che cosa fosse, e cercava di capirsi a poco a poco mentre diventava il suo personaggio e il suo personaggio diventava lui ma, anche alla fine, ci lasciava con uno sguardo ancora interrogativo”.  Tre volte candidato all’Oscar come miglior attore,  per  Divorzio all’italiana  (1963), Una giornata particolare  (1978) e  Oci ciornie  (1988). Nato per fare l’attore, aveva un profondo senso di umiltà davanti la macchina da presa. La sua sorprendente sicurezza scenica mista alla meticolosità lo hanno reso unico e amatissimo da registi come Ettore Scola che lo scelse, in coppia con Sophia Loren, protagonista di ben 9 suoi film. Tutti rimasti nella storia del cinema italiano, fra questi Dramma della gelosia (1970).

Sospeso tra sogno e realtà, riusciva a dare voce e anima alla fragilità dell’esistenza sempre con raffinata autoironia. Abile a fondere sé stesso al personaggio e poi, esattamente il contrario. Capace di cogliere il cambiamento e diventarne un profondo interprete. Passava con facilità da ruoli comici a drammatici, ribellandosi a certa stampa che tentava di schiacciarlo in stereotipati siparietti da rotocalco definendolo un “grande amatore” e un sex symbol. Per questo accettò di interpretare il ruolo dell’impotente nel  Bell’Antonio (1960)  diretto da  Mauro Bolognini. La bellezza lo infastidiva e l’ha combattuta senza adagiarsi nella facile adulazione. Tutta la sua carriera racconta la fatica di indagare la complessità dell’uomo moderno. Interpretando le sue brutture e le sue fragilità, in assenza di giudizio ma sperando che chiunque potesse riconoscersi nei ruoli che interpretava. E come non dare torto al New York Times, che scrisse di lui: “E’ senza dubbio il divo cinematografico italiano più amato in America e nel mondo”.

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1 commento

  1. Sono contro il divismo quale espressione della passività della folla rispetto ad una mera immagine che lo nutre oltre ciò che il cosiddetto divo è nella realtà. Ma è tendenza della folla, questo. Così come c’erano divi anche in Roma imperiale nella sua decadenza. E c’erano durante il fascismo, perché, ripetiamo, è una realtà della folla il subire e potenziare delle immagini che acquisisce acriticamente. Niente di che, dunque, quanto a valore del singolo in particolare. I media e l’avvento della televisione dopo il cinema hanno semplicemente moltiplicato questo potere dell’immagine di questo o quello, posta all’attenzione della folla. Divo a modo suo era anche D’Annunzio nel suo enorme eccesso di mondanità della quale era avidissimo, e un esempio del ripetersi del divo d’annunzio è quel mediocre “Guido da Verona” che si faceva vedere in galleria del Duomo a Milano con i suoi levrieri scimmiottando d’Annunzio. Così come lo stupido ma famoso americano Elvis Presley veniva imitato fortunatamente da Jonny Halliday in Francia e, meno, perché gli italioti erano ancora fermi alle stornellate di Claudio Villa, da Bobbi Solo in Italia.

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