Morire per la verità: professione reporter

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Almerigo Grilz è il primo reporter italiano a morire in un teatro di guerra

Che cosa si prova a diventare il nome di una strada o delle parole incise su un monumento? È l’eterno dilemma tra Ettore e Achille: vivere per esistere nella propria carne, nella carne dei propri figli e nipoti, e piano piano diventare come “la nostalgia in un paesaggio dipinto”, o vivere come una scheggia, in un’esplosione, e guadagnarsi un pezzo fragoroso di eternità?

Chi lo sa se Almerigo Grilz si era posto questo dilemma anche fuori dai banchi di  scuola. O forse ha sempre e solo seguito quello che gli diceva il cuore, e se il cuore è avventuroso e curioso e, per di più, è un cuore triestino, che guizza come un pesce e ride tra le sue scaglie scintillanti, è naturale trovarsi in giro per il mondo a volerne raccontare gli angoli, i colori e le espressioni. Dopo diverse estati in autostop per l’Europa, a imparare le lingue e le diverse facce dell’uomo, Almerigo, “Ruga” per gli amici, comincia la sua carriera di fotoreporter, documentando cortei politici, con macchina fotografica e cinepresa. Aggiunge il disegno a mano libera, quando non vuole farsi scappare qualche dettaglio, ed è tanto bravo che gli capita di disegnare anche fumetti, volantini e manifesti.

A ventiquattro anni, mentre è capo del Fronte della Gioventù di Trieste e vicesegretario nazionale, oltre che consigliere comunale, si iscrive all’albo dei giornalisti come pubblicista. Fa l’inviato: va in luoghi lontani a riprendere le immagini che nessuno vedrebbe mai. Guerre. Paesaggi. Visi diversi. Dolori diversi.

Alla fine degli anni ’70, fonda il ‘Centro Nazionale Audiovisivi’ e, dopo il servizio militare e la laurea, decide di fare del giornalismo la sua unica passione e professione. Collaborando con le migliori testate internazionali, documenta tutte le situazioni, le rivolte, i movimenti che rischierebbero di perdersi nel caos della storia: l’invasione israeliana del Libano e il ritiro palestinese di Beirut; la guerriglia afghana e la guerra cambogiana; i conflitti sul confine birmano-tailandese e la guerra tra Iran e Iraq; l’Angola dei guerriglieri dell’Unita e le Filippine, il Mozambico e l’Afganistan, l’Etiopia e l’Irlanda del Nord.

Fonda con gli amici Gian Micalessin e Fausto Biloslavo l’agenzia giornalistica Albatross Press Agency. E mentre gli anni ‘80 esplodono in tutti i loro eccessi, lui li passa nei luoghi più distanti e feriti, accampato con soldati e guerriglieri, percorrendo chilometri a piedi, superando paludi, camminando dove l’erba è più alta dell’uomo, sopportando la solitudine o a pochi metri da cadaveri e pallottole, sangue e armi. La sua vita spericolata non è più in Italia: è lì, anche se lui non è al centro del film, ma è il regista, l’occhio silenzioso dietro la telecamera.

Mentre filma un combattimento tra i guerriglieri della ReNaMo, la resistenza nazionale mozambicana, e l’esercito, la mattina del 19 maggio 1987, Almerigo muore tra il fuoco incrociato dei mortai, colpito da una pallottola che dalla nuca gli trapassa la gola e lo trascina a terra nella sua esplosione. Il Super8 continua a girare. Il suo corpo viene recuperato dagli uomini della ReNaMo e seppellito accanto a un grande albero, nella terra calda del Mozambico, a migliaia di chilometri dalle acque di Trieste.

A trentaquattro anni, dopo il 1945, è il primo giornalista italiano a morire in un teatro di guerra.

C’è una canzone che dice: “Sei troppo giovane per bruciare/sei troppo giovane per diventare vecchio”. Quella forse sarebbe stata la sua colonna sonora.