La data della “marcia su Roma” è sempre stata sopravvalutata. Dai fascisti, innanzitutto, che fecero di quel 28 ottobre 1922 il giorno seminale della loro “era fascista”, dagli antifascisti poi, che videro in quella sfilata di avventurieri un vero golpe e non solo una esibizione di muscoli. Il re Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare lo stato d’assedio e di spingere l’Italia in una nuova guerra civile – sarebbe stato molto peggio del Natale di Sangue di due anni prima – convocò Mussolini a Roma e lo incaricò di formare un governo per via parlamentare. Nella sua prima composizione i fascisti veri e propri erano solo tre su 14 ministri in totale e le due Camere votarono la fiducia con rispettivamente 215 senatori e 429 deputati a favore.
La svolta dittatoriale avvenne dunque non con la “marcia su Roma”, ma due anni e due mesi dopo: il 3 gennaio di cento anni fa, quando un Mussolini che molti davano per morto politico con un furibondo scatto di reni riprese in pugno la situazione e si impose come dittatore, rinunciando a ogni via d’accordo con i partiti moderati e di opposizione che aveva cercato negli anni precedenti.
Ma cos’era successo nei due anni precedenti? Il Fascismo, al governo del paese, aveva colto successi soprattutto sul fronte internazionale, come l’annessione di Fiume all’Italia, la conclusione positiva della crisi di Corfù e l’ottenimento di alcuni (magri, per la verità, ma simbolici) compensi coloniali dai nostri “alleati” della Grande Guerra. Sul fronte interno c’era stata la riforma della scuola di Giovanni Gentile e un generale riordino dello Stato e dei conti pubblici; scioperi e disordini erano drasticamente calati e – come si suol dire – “i treni avevano ricominciato ad arrivare in orario”. La guerra civile coi “rossi” s’era molto affievolita, anche se aggressioni d’ogni genere e da ogni parte continuavano ad avvenire.
Poi, il 10 giugno 1924, il delitto Matteotti. Il deputato socialista fu sequestrato da una squadraccia fascista – la cosiddetta “Ceka” al comando dell’avventuriero Amerigo Dumini – e morì nelle mani dei suoi rapitori, che ne occultarono il cadavere. Furono settimane di tensione spasmodica per tutto il paese. A migliaia abbandonarono il Fascismo, pensando che il carro del vincitore fosse finito in un fosso (forse unico in controtendenza Pirandello, che prese la tessera del PNF all’acme della crisi Matteotti, proprio per il disgusto di tanto opportunismo). Mussolini – che con tutta probabilità era estraneo al delitto – si trovava sui carboni ardenti: da un lato l’opposizione, che aveva lasciato la Camera nel famoso “Aventino” antifascista, l’opinione pubblica, la stampa, dall’altra il Partito, a cui prudevano le mani e chiedeva a Mussolini di sciogliere gli indugi e scatenarlo contro le opposizioni. Il capo del governo era letteralmente isolato.
Il Re, come una sfinge, non prese posizione: il popolo italiano aveva le sue istituzioni e lui doveva solo fare da arbitro. La crisi doveva dunque essere risolta per via parlamentare. Proprio nel tardo autunno del 1924 le opposizioni antifasciste cercarono di assestare un colpo, staccando i moderati dal PNF. Gli uomini della vecchia Italia liberale – Giolitti, Salandra, Orlando, Albertini… – sembravano in grado di far uscire i moderati dalla maggioranza per provocare la caduta del governo. Mussolini si trovò a dover fronteggiare questa minaccia assieme a quelle – pare anche fisiche… – dei suoi uomini più esagitati, che chiedevano di poter rimettere mano al manganello e alla pistola. Alla fine dell’anno Mussolini promise ai suoi luogotenenti che avrebbe preso in pugno la situazione: “abbiate pazienza o sarà peggio per tutti”, li minacciò. Così avvenne.
Il 3 gennaio, davanti alla Camera Mussolini pronunciò un discorso che egli stesso definì “non parlamentare”. Fu forse il suo primo vero monologo, antesignano di quelli dal famoso “balcone”. Di sicuro fu un capolavoro di retorica in cui rovesciò la situazione, tirando la palla nel campo dell’opposizione e costringendola ad andare fino in fondo – la messa in stato d’accusa del presidente del consiglio – o a farsi da parte. Rivendicò la “responsabilità morale” di “tutte le violenze risultato di un determinato clima storico, politico, morale” (fra cui, senza mai citarlo, del delitto Matteotti), non per assumersene la colpa ma per far capire agli squadristi che nel bene e nel male il capo era sempre e solo lui. Rivendicò i successi del suo governo e della “rivoluzione fascista”, termine che entrò da quel momento nell’ufficialità. Col discorso del 3 gennaio Mussolini si piantava con tracotante prepotenza al centro della scena politica, contro oppositori di dentro e di fuori: lui era il duce, il capo indiscutibile e non avrebbe accettato più critiche.
La dittatura iniziò dunque quel 3 gennaio. Una data simbolica ma non istantanea: le “leggi fascistissime” che costruirono l’impianto giuridico del Regime, sarebbero arrivate nei quattro anni seguenti, con lenta ma inesorabile progressione. Ma il 3 gennaio si chiuse con una tempesta che avrebbe fatto capire quale sarebbe stata la direzione intrapresa dal governo Mussolini: il ministero degli Interni diede ordine di mettere il bavaglio ai giornali d’opposizione (ma anche a diversi filo-governativi e perfino fascisti) con la scusa ante litteram delle “fake news”: ai prefetti fu dato il potere di diffidare o addirittura sequestrare il giornale che diffondesse «notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico». A ben vedere una bella lezione per i nostri giorni…