Rivoluzionari senza (più) rivoluzione

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La Casa monumentale del Partito Comunista Bulgaro, a Buzludža, oggi abbandonata. Foto di Michal Janček, CC 2.0 sa by nc

La storia ha fatto giustizia delle rivoluzioni, quella comunista in particolare, dimostrando che la realtà e la verità trionfano sull’ideologia ed esistono nonostante gli sforzi di plasmarle a sua immagine e somiglianza

Augusto Del Noce, [al quale da Luciano Lanna ha dedicato il saggio “Attraversare la Modernità”, di cui leggerete la recensione approfondita nel prossimo numero di CulturaIdentità in edicola, NdR] in quello che è forse il suo libro più famoso (Il suicidio della rivoluzione), nell’ormai lontano 1978, sostenne che la rivoluzione si era suicidata. «Non si vuole alludere con questa frase — scrisse — a una sua sconfitta da parte delle forze tradizionaliste, o a una sua impotenza rispetto all’eversione delle strutture esistenti; si vuole dire che il compimento della rivoluzione coincide con il suo suicidio». Ciò a dire che il mito rivoluzionario avrebbe pure continuato a mordere le strutture borghesi, ma, comunque, non avrebbe costruito la mitica città futura, perché ormai era chiaro che l’esito non avrebbe potuto che essere la sua fine, il suo suicidio.

Non un futuro radioso, quindi, è quello che si delineava, ma un futuro nichilista, la contestazione permanente dell’esistente senza prospettiva di cambiamento reale.

Prevalendo il momento negativo (del materialismo dialettico), ossia la “devalorizzazione dell’ordine tradizionale”, il rivoluzionarismo marxista (ma sarebbe meglio dire post-marxista) si è pertanto convertito nel “nichilismo al potere”, un esercizio meramente distruttivo, il cui esito è sì avversativo e oppositivo, ma affatto incapace di opporre un’alternativa reale, praticabile, effettiva. Perciò, i rivoluzionari sono senza rivoluzione, intendendo per rivoluzione l’idea palingenetica di un nuovo ordine da instaurare, di una nuova umanità affrancata, di una società liberata, promesse queste che avevano affascinato intere generazioni.

Interpretando queste attese Del Noce scriveva nel suo Il problema dell’ateismo che la rivoluzione era «la liberazione, per via politica, dell’uomo dall’alienazione a cui si trova costretto dagli ordini sociali sinora realizzati e che ha la sua radice soltanto nella struttura di tali ordini».

Si era allora negli anni `60 e il consumismo si era diffuso capillarmente, cosicché aveva preso forma una società che funzionava secondo canoni legati strettamente alla produzione e all’arricchimento. Il benessere ne era la religione ed in esso si rimettevano le attese di salvezza. Ma il benessere non era per tutti, in quanto quella stessa società lasciava sussistere, o finanche alimentava, sperequazioni profonde; talché il valore stesso della libertà ne appariva svilito.

A fronte di questo il comunismo prometteva, come ha scritto J. Ratzinger, «giustizia per tutti, l’avvento della pace e l’abolizione degli ingiustificati rapporti di predominio dell’uomo sull’uomo». Mostrava, quindi, di coniugare la libertà con la giustizia sociale, lo sviluppo con l’uguaglianza. E lo faceva non tanto in nome di una filosofia, quanto di una prassi «che crea innanzitutto verità, non la presuppone».

Va da sé che in queste tesi l’onere della prova era riposto nel «passaggio dall’aspirazione all’azione rivoluzionaria», come notava Del Noce. Sarebbe stata, quindi, unicamente la prassi a verificare la verità del comunismo, perché «la realtà è conoscibile poiché e in quanto siamo noi a portarla ad effetto». Insomma, l’idea guida era quella della rivoluzione “levatrice del Mondo Nuovo”, come scriveva Pellicani.

Invece sarebbe stata proprio la prassi a sconfessare tesi ed attese, quando tolto il paravento della retorica rivoluzionaria si sarebbe scoperto il fallimento reale del comunismo e, non tanto o soltanto sul piano economico, quanto sul piano della liberazione e promozione umana a fronte dell’oppressione di interi popoli, della schiavizzazione dei sogni e delle aspirazioni alla nomenklatura, all’apparato, che si sarebbe evidenziata.

La tesi centrale del suicidio della rivoluzione, ossia quella del fallimento storico del marxismo, poggia su questa convinzione e troverà negli eventi che accadranno nel corso del decennio successivo una drammatica conferma (le denunce dei dissidenti russi, la caduta del muro di Berlino, la fine dell’URSS). Ne deriva che sarà proprio la storia a incaricarsi di sconfessare il mito rivoluzionario, mostrandone le inadempienze e le tragiche incongruenze.

Si può quindi concludere che la rivoluzione ha questo di caratteristico: è sempre un obbiettivo mancato, una perfezione sfuggita, marchiata però da una violenza reale.

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