Sfatiamo un po’ di balle sulla RAI che va male

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Rai

Era il 15 maggio 2023, quando il Cda della Rai designava Roberto Sergio quale amministratore delegato, che a sua volta sceglieva Giampaolo Rossi in veste di direttore generale. Per i due nuovi vertici si profilava una corsa contro il tempo per chiudere il palinsesto estivo alle porte e programmare quello autunnale.

Nel frattempo, Fabio Fazio aveva già annunciato il suo addio alla Rai, a causa di un contratto mai rinnovato nei mesi precedenti da un Fuortes che sembrava più impegnato a garantire il futuro personale che non quello dell’azienda.

Nonostante l’assenza di qualsiasi interlocuzione, negata dallo stesso conduttore, che aveva già ben chiaro dove approdare, da molti media veniva immediatamente celebrato un Fazio presunto “martire” della cosiddetta “Telemeloni”, locuzione mai usata con il nome di altri presidenti del Consiglio e ulteriore indizio verso quale direzione avrebbe soffiato la critica.

Da allora la Rai è costantemente al centro dell’attenzione per ragioni squisitamente ideologiche, quasi campanilistiche, ove con questo termine, da enciclopedia, s’intende “l’attaccamento esagerato ed esclusivo… che induce spesso a un’ostilità preconcetta verso paesi e costumi diversi”. Definizione che si addice particolarmente a una narrazione diffusa che si sofferma, con particolare compiacimento, su quello che non funziona, senza alcun approccio analitico e neutrale.

Proviamoci noi, applicando un fact-checking quanto più rigoroso possibile.

Iniziamo dai big che la Rai avrebbe (secondo la vulgata dominante) consapevolmente allontanato. Di Fazio si è detto, Lucia Annunziata e Bianca Berlinguer erano state confermate in palinsesto, Augias, ultimo nome per cui ci si stanno stracciando le vesti, aveva appena pubblicato con Rai libri, uno splendido saggio su San Paolo, non proprio un atto di ostilità da parte dell’azienda. Dove sta l’allontanamento?

Riguardo gli ascolti la tesi generale vorrebbe dimostrare quanto quelli della tv pubblica siano sistematicamente surclassati dalla concorrenza. Il campione preso in esame compara specularmente canali e programmi? Assolutamente no, ci si limita a porre l’accento su quei 4-5 programmi, nuovi e spesso ancora in fase sperimentale che hanno stentato in avvio mentre la Rai produce 110 programmi settimanali su 13 canali, di cui alcuni sono puramente di servizio pubblico e non pensati per prendere parte alla competizione degli ascolti, competizione cui la Rai fa ancora la parte del leone; con programmi come La vita in diretta, stabilmente su numeri altissimi, le fiction come Bianca e l’ultima, commovente, su Elisa Claps. Per non parlare di Fiorello, capace di fare, all’alba, numeri da Prime Time.

La Rai non si è snaturata, ha conservato il meglio della sua tradizione, provando a innovare (e ogni innovazione richiede periodi di assestamento) e guardando il futuro anche attraverso la celebrazione di un passato glorioso, in vista dei 100 anni della radio e dei 70 della tv, durante i quali saranno coinvolto Renzo Arbore, Pippo Baudo e Giovanni Minoli.

Tutto perfetto sotto il cielo di Viale Mazzini? Assolutamente no, oltretutto con la spada di Damocle della riduzione del canone che rischia di privare la Rai di importanti risorse sufficienti per un piano di sviluppo.

Un aspetto non da poco che andrebbe affrontato e spiegato con dovizia di precisione, invece, per colpire il governo si colpisce la nuova governance aziendale e quindi, di fatto, la Rai, senza separare quasi mai i fatti dalle opinioni, né riconoscere il percorso, lastricato da ostacoli, uno quello da 650 milioni di debito ereditato, che Sergio e Rossi, si sono trovati a intraprendere fin dall’inizio del proprio mandato.

La narrazione di una Rai dipinta come un carrozzone costoso e improduttivo corre non solo il rischio di renderla invisa alla gente, soffiando sul fuoco di una rabbia diffusa e dovuta a ben altri problemi, ma anche quella di danneggiarne la storia, la ragione sociale di servizio pubblico, che avrebbe bisogno di essere raccontata in maniera ben diversa.

Purtroppo, si sa, fa più rumore un albero che cade di uno che cresce.

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1 commento

  1. Il suo articolo é apprezzabile, ma come contribuente vorrei un tabulato analitico per capire quali sono i programmi di servizio pubblico, valutarli e giudicarne il costo/beneficio. Finché il canone lo decidono quelli che “usano” la Rai per la loro comunicazione o promozione non si risolve il conflitto di interesse.

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