Siamo tutti figli della nostra cucina

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Foto: ValeGaudi CC 2.0 NC ND

“Nusquam est qui ubique est. […] Non prodest cibus, qui statim sumptus emittitur”
“Chi è ovunque non è da nessuna parte. […] Non giova il cibo che, una volta assunto, subito viene rimesso”.

L. A. Seneca, Epistulae Morales ad Lucilium, II.

Quando parliamo del peso del cibo all’interno della nostra vita, la maggior parte di noi si concentra sull’importanza culturale che quest’ultimo ricopre all’interno della nostra civiltà, o anche, almeno per chi si occupa della questione da un punto di vista più specifico, sui valori nutrizionali e sulle sostanze che apporta al nostro organismo. La frase “Una dieta varia è fondamentale per contribuire al corretto funzionamento dell’organismo” è quasi divenuta un dogma e, sebbene l’assunto su cui si fonda sia corretto, nell’ottica della civiltà della nostra epoca, avvelenata dal pervasivo morbo che la Globalizzazione ha portato seco fin dai suoi albori, tali parole hanno funto da Cavallo di Troia, permettendo una mescolanza indistinta di cibi e sapori, magari consentendo all’uomo di Roma di assaporare qualche esotico piatto di cui, fino a quel momento, aveva ignorato l’esistenza. Ma non solo: i nuovi sistemi hanno permesso di coltivare agevolmente ortaggi in serra anche fuori stagione, regalandoci scaffali pieni di pomodori anche a inverno inoltrato.

Un tempo il nostro organismo, essendo teso a seguire la naturale successione delle stagioni, si adattava agli alimenti che il periodo gli regalava, vivendo in un equilibrio dinamico con il contesto ambientale e socio-culturale in cui era immerso; oggi invece si trascura con facilità quanto le procedure di conservazione necessarie al trasporto o i sistemi chimico-fisici utili al raffinamento dei prodotti in luoghi o in periodi diversi da quelli in cui si troverebbero normalmente influiscano, spesso in modo negativo, sulle proprietà organolettiche dei suddetti o sulla necessità di ricorrere a innumerevoli tipologie di conservanti per preservarne l’integrità.

Potrebbe risultare superfluo e ridondante rimembrare la massima secondo cui noi siamo ciò che mangiamo, eppure non lo è. Se da una parte veniamo costantemente spinti a nutrirci di cibi-spazzatura in gran quantità, dall’altra veniamo bombardati da allarmi inerenti al precario stato della salute e dell’educazione alimentare in Occidente, e tale dinamica, unitamente a molte altre, conduce le persone in un costante stato di paura e conflitto latenti, rendendole incapaci di coesistere armonicamente con i luoghi in cui si trovano a vivere. Ed è risaputo quanto lo stato psico-fisico di un individuo possa influire sull’assorbimento e sulla trasformazione delle sostanze che assume. Si potrebbe quasi dire che esso entri in risonanza (o, dati i tempi, in dissonanza) con la sua realtà. Ed è proprio suddetta risonanza, con i campi, con le zolle di terra arata, con ciò che ci è vicino prima che lontano, ad aiutarci a rimanere in salute, poiché sempre valido è l’antico detto Mens sana in corpore sano; il cibo ci lega al suolo con un vincolo indissolubile, dato che mangiare è un atto agricolo (W. Barry) e noi non siamo che arbusti, fiori e alberi con il dono del movimento, e abbiamo radici profonde, le quali, pur se sradicate, tendono sempre a tornare verso il suolo da cui sono state strappate.

Un tempo i contadini e tutti coloro che vivevano a stretto contatto con la terra sapevano bene quando seminare o in concomitanza di quale fase lunare fosse più opportuno potare una pianta per poter avere un raccolto migliore o un maggior numero di frutti, senza però compromettere lo stato di salute di ciò che avevano in cura, mentre oggi le nozioni degli umili vengono abbassate al rango di mendaci dicerie o di questioni di lana caprina.

La nostra tendenza a celebrare in modo inerte il Passato, sia esso storico o culinario, senza difenderlo dagli attacchi che lo colpiscono, ci distacca dal nostro territorio e ci rende un gregge di imbalsamatori in balìa degli eventi: pertanto, oltre che ricordare, sarebbe utile agire, dato che Lupus ovium non curat numerum – Il lupo non si cura del numero delle pecore (Virgilio, Bucoliche, VII, 51).

Sotto l’oscura cupola che adombra questo mondo infelice mangiare italiano non è un capriccio o un atto retrivo, bensì una delle scintille che potrà riportare la Luce con cui illuminare il nostro percorso di vita.

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