Era il 13 novembre di 50 anni fa, quando in Francia, a Neuilly-sur-Seine, ci lasciava Vittorio De Sica. Attore di teatro e di cinema, poi regista, De Sica è considerato uno dei giganti dello spettacolo italiano a cavallo fra le due guerre, fra i padri del Neorealismo. Un ruolo riconosciuto non solo nel nostro paese, ma anche all’estero: ben quattro, infatti, sono gli Oscar andati ai suoi film.
Oltre 150 sono le pellicole in cui è apparso, fin dai suoi esordi all’epoca del muto come comparsa in “Il processo Clémenceau”, di Alfredo De Antoni (1917) e poi in spezzoni di repertorio in alcune pellicole subito dopo la sua morte, fra cui l’omaggio di Ettore Scola in “C’eravamo tanto amati”, del 1974.
Una produzione massiccia dovuta anche a un suo piccolo vizio, quello dell’azzardo: De Sica si trovò infatti a dover guadagnare per pagare debiti di gioco, accettando così parti anche in film di bassa qualità.
Nato a Sora quando la città era ancora parte della Campania (il comune sarà unito al Frusinate con la riforma dei confini regionali, nel 1927), si trasferì poi con la famiglia a Napoli, città d’origine della madre, a cui rimase legatissimo. La famiglia era povera, ma colta: il padre infatti era giornalista. A cavallo della Grande Guerra, adolescente, De Sica fece il suo primo incontro col teatro e col cinema: calcò il palco per gli spettacoli di beneficenza a favore dei soldati convalescenti e nel ’17 recitò come comparsa nel film di De Antoni. Un episodio isolato, tuttavia.
De Sica infatti rimase legato al teatro per tutti gli anni Venti, riscuotendo grande successo di pubblico e così – inevitabilmente – finendo attratto dall’industria grande schermo. Dopo alcune comparsate più o meno importanti, la svolta nel 1932: in “Gli uomini, che mascalzoni…” diretto da Mario Camerini, in cui De Sica cantava la canzone “Parlami d’amore Mariù” (di Neri & Bixio), destinata a diventare perfino più famosa della pellicola. De Sica iniziò una fortunata collaborazione con Camerini, recitando in “Il signor Max” e “Grandi Magazzini”, titoli rimasti così celebri da entrare nell’immaginario collettivo dei decenni successivi.
Nello stesso anno di “Grandi Magazzini”, il 1939, anche il suo esordio dietro la macchina da presa. Inizialmente De Sica rimase nel solco delle commedie, ma durante la guerra si spostò sui temi drammatici e aprì al Neorealismo. A cavallo fra 1942 e 1943 realizzò il duro “I bambini ci guardano”: una storia di dissoluzione dell’unità della famiglia che oggi, in tempi di politicamente corretto e femminismo istituzionale, sarebbe forse impossibile girare, con una madre fedifraga e soprattutto un padre tradito che riveste il ruolo di figura positiva (per quanto possibile in un film drammaticamente senza alcun “lieto fine”). Del resto, nella sua vita privata De Sica fu due volte marito – lasciò nel 1954 la prima moglie, Giuditta Rissone, che era anche compagna sul palcoscenico – per sposare l’attrice catalana Maria Mercander, conosciuta sul set nel 1942. Eppure il regista cercò a tutti i costi di tenere entrambe le famiglie attorno a sé, con una figlia, Emilia, avuta dalla Rissone e due maschi, Manuel e Christian, avuti dalla Mercander.
Oramai legato al cinema, De Sica, diventò uno dei pilastri di quella nuova ondata nata dal combinato disposto di una maturazione estetica e morale dei cineasti italiani usciti dal Fascismo e dall’arrivo dei desiderata dei nuovi padroni in Italia. Il Neorealismo, con la produzione di pellicole tecnicamente egregie, rispondeva infatti perfettamente alle necessità di inglesi e americani di dare agli italiani una rappresentazione di loro stessi deprimente, negativa, patetica. Cessavano eroismi e ottimismi d’anteguerra, forse fin troppo retorici, per affermarsi i loro opposti – altrettanto retorici ma resi con impareggiata maestria cinematografica.
In questo ruolo Vittorio De Sica gira “Sciuscià” (1946) e poi “Ladri di biciclette” (1948), pellicole celebri e celebrate, che tuttavia all’epoca suscitarono anche polemiche, per la loro l’insistenza nel voler dare una rappresentazione negativa degli italiani. Un percorso continuato col film “Miracolo a Milano” (1951), dove le tematiche neorealiste lasciano il posto al “realismo magico” e poi completato con “Umberto D.” (1952), dedicato all’amatissimo padre, e “L’oro di Napoli” (1954).
Politicamente vicino al Partito Comunista, nel 1960 De Sica decide di firmare quella che è una delle pochissime pellicole di denuncia dei crimini commessi dai “liberatori” durante la Seconda guerra mondiale: “La Ciociara”, con Sophia Loren. Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, documenta le atrocità compiute dalle truppe coloniali francesi nel Basso Lazio (zona dove nel 1944 i goumiers si scatenarono più che altrove), dando origine al fenomeno delle “marocchinate”. Pur inserendosi così nel solco della polemica anti-blocco occidentale del PCI, il film è una preziosa testimonianza dei lati oscuri della Liberazione, troppo precocemente dimenticati nella coscienza collettiva italiana (anche, in buona parte, grazie al Neorealismo di cui De Sica fu magna pars).
L’adesione ideologica al marxismo, peraltro, fu anche il motivo che lo spinse a rifiutare la direzione dei film tratti dalle opere di Giovannino Guareschi su “Don Camillo”.
Negli anni Sessanta Vittorio De Sica lavorò con mostri sacri del cinema italiano come la coppia Mastroianni-Loren (“Ieri, oggi e domani”, “Matrimonio all’italiana” e “I girasoli”). In “Ieri, oggi e domani” mise in scena la celeberrima scena dello spogliarello della Loren sulle note di “Abatjour” divenuta una pietra miliare del cinema.
De Sica, sebbene nato a Sora, si sentì sempre napoletano. Un amore per la città partenopea che egli testimoniò con la musica, facendosi interprete di alcuni dei classici della canzone napoletana come “Tuorna a Surriento” e “Munasterio ‘e Santa Chiara”, scrivendo anche il testo – musicato dal figlio Manuel – di “Dimme che tuorne a mme!”.
Verso la fine della sua carriera, in diverse apparizioni su quel nuovo strumento che era la televisione, Vittorio De Sica, cantando canzoni napoletane e recitando poesie, deliziò un pubblico ancora sensibile alla bellezza della tradizione italiana.