Dal «culto» alla «cultura»: perché anche nel contesto laico del museo le immagini religiose non hanno perso il loro seducente potere, la loro magia di icone miracolose
Tra tutte le collezioni di arte sacra esposte nei musei italiani, una delle più prestigiose e variegate è quella che appartiene alla Pinacoteca di Brera. E c’è un preciso motivo perché così tante opere di culto sono giunte a Milano da molte regioni italiane. Quando Napoleone conquista l’Italia e proclama Milano capitale del Regno italico – le terre conquistate passando per l’Emilia, la Romagna e le Marche, si estendono fino ai territori adriatici della Repubblica di Venezia – la soppressione degli ordini religiosi impone che le opere d’arte appartenenti al clero vengano confiscate ed entrino a far parte del demanio regio napoleonico. Grazie anche ad Andrea Appiani, valente pittore milanese e «commissario governativo per le belle arti», dal 1797 in poi, e soprattutto dopo il 1805 quando Napoleone viene incoronato Re in Duomo, le grandi tele e le grandi pale delle chiese del regno italico non vengono, per fortuna, disperse ma sono accumulate nel nascente museo di Brera, divise per categorie: quelle che meritano di essere esposte, quelle che possono essere scambiate, e infine quelle meno importanti che possono essere ricollocate altrove, per esempio in chiese povere che ne facciano richiesta.
Il flusso di opere d’arte, confiscate o generosamente acquistate per il museo dal viceré Eugenio di Beauharnais (per esempio il capolavoro assoluto di Raffaello, lo «Sposalizio della Vergine», o la «Madonna con il Bambino» di Giovanni Bellini), è impressionante: nel 1809 sono già 139 i dipinti tra i quali il «San Gerolamo» di Tiziano, la «Crocifissione» di Bramantino, la «Predica di San Marco» di Gentile e Giovanni Bellini; nel 1813 le opere sono addirittura 889. Con ulteriori acquisti o lasciti (nel 1811 arriverà la «Pala di Montefeltro» di Piero della Francesca, nel 1824 il «Cristo morto» di Mantegna, nel 1939 l’incredibile «Cena in Emmaus» di Caravaggio), Brera si caratterizzerà, tutto sommato, da questo iniziale nucleo come una pinacoteca soprattutto di arte sacra; ed è un paradosso perché la collezione nasce non dal collezionismo aristocratico, principesco o di corte (come Galleria Borghese e Roma o gli Uffizi a Firenze), e neppure come un collezionismo di stampo religioso (i musei Vaticani), bensì si forma grazie a un collezionismo politico, di Stato, per di più di stampo anticlericale, come fu anticlericale il periodo napoleonico.
Questo esito, di opere d’arte sacra nei musei, non rappresenta però un’eterogenesi dei fini, semmai l’inevitabile slittamento di senso e terminologico della modernità, quando si passa dal «culto» alla «cultura». Lo ha spiegato molto bene Jean Clair, uno dei più grandi storici d’arte degli ultimi decenni, che l’arte ha un’origine metafisica, l’idea che ci spinge da millenni a rappresentare la natura e l’uomo è pensare sopra di noi a un essere onnipotente, regolatore, creatore, un demiurgo in grado di progettare l’universo; per questo motivo l’utilizzo delle immagini è strettamente legato alla religione, cioè alla venerazione di quell’essere. La bellezza dunque dipende, alle origini, da un culto. E la parola culto mantiene – nel suo etimo da «colere», «coltivare» – la componente terrosa (il culto sarebbe una radura disboscata, dissodata nella buia foresta delle origini, una radura dove l’essere appare), ma anche resiste il legame con la magia e il mistero. Da qui, l’antica usanza delle chiese di innalzare le immagini sacre a vere icone miracolose da far baciare ai fedeli o da portare in processione i Santi Patroni, con la certezza che potessero guarire gli ammalati, dare conforto agli afflitti, liberare gli indemoniati, sanare dalle pestilenze. Dal «culto», dalla venerazione delle cose sacre, tipica della religione, si è passati alla venerazione della «cultura» tipica dei musei; dalle cose miracolose si è passati a quelle da ammirare, le cosiddette mirabilia, che sono appunto le opere d’arte. Il museo ha, di fatto, privato le immagini del loro incanto primordiale, della magia che trasmettevano, ha però incarnato comunque dal Settecento a oggi, una tensione laica, di un luogo in cui si depositano e conservano le memorie di una nazione, e attraverso il quale si trasmette la più alta idea dell’uomo e i suoi ideali. E guarda caso, come succede a Brera, tutto questo attraverso opere d’arte che inizialmente erano destinate al culto ed esposte nelle chiese.