L’11 novembre scorso, presso l’Arc de Triomphe di Parigi, 70 leader mondiali celebravano il centenario della fine della Grande Guerra. In realtà, molti storici ritengono che quella scelta, il giorno in cui la Germania chiese l’armistizio, sia una data “convenzionale”.
Non è una novità: basti pensare a testi come Il secolo breve di Hobsbawn, o La guerra civile europea di Nolte, per comprendere che la storiografia più raffinata tende a non vedere soluzione di continuità tra le due guerre mondiali.
A tal proposito, La rabbia dei vinti di Robert Gerwarth, ci offre una messa a fuoco delle numerose guerre guerreggiate che ebbero luogo mentre a Versailles si definiva il trattato di pace. Dalla Polonia ai Paesi Baltici, dalla Bulgaria all’Ungheria, dalla Finlandia al conflitto greco-turco (in cui fu coinvolta anche l’Italia), per non parlare dello scontro tra Armata Rossa e Russi Bianchi, per almeno cinque anni dopo Compiègne, centinaia di migliaia di europei continuarono a combattersi duramente.
Si trattò di guerre di tipo nuovo, dal taglio ideologico e riflessi anche all’interno degli stessi Stati, soprattutto in nazioni come la Germania uscite sconfitte dalla guerra. Ma non solo.
Anche in Francia e Gran Bretagna la conflittualità politica e di classe si acuì fortemente in quegli anni. E in Italia. Secondo Gerwarth, per certi aspetti, essa ebbe un dopoguerra simile a quello dei vinti, sia per lo stress economico al quale fu sottoposta, che diede origine alle violenze del Biennio Rosso (1919-20), sia a causa della cosiddetta vittoria mutilata, che la vedeva discriminata nelle sue aspirazioni di potenza vincitrice, e che spinse migliaia di soldati, arditi, avventurieri ad unirsi in Legione, al seguito di Gabriele D’Annunzio, e dare vita all’Impresa di Fiume, per rivendicarne l’italianità.
Ciò che avvenne in Europa, però, non fu solo il frutto di rivendicazioni nazionalistiche o sociali. Era un nuovo assetto economico, politico e culturale che cercava di prendere forma.
Rivoluzionari di professione come Lenin e Mussolini lo avevano previsto nel 1914: le società europee sarebbero uscite sconvolte dal conflitto e avrebbero subito una trasformazione profonda. La Prima Guerra Mondiale sancì infatti l’ingresso delle masse nel perimetro della Politica, compromettendo la capacità di tenuta delle vecchie identità collettive dei sistemi liberali e aristocratici.
Un’intera generazione, quella forgiatasi nelle trincee e nelle tempeste d’acciaio di Junger, reclamava un nuovo ordine. Non possono sfuggire le somiglianze che intercorrono nei comportamenti, nei valori, nel fervore intellettuale, esistenti ad esempio tra Freikorps tedeschi e squadristi e legionari italiani, a cominciare dal sincretismo ideologico, a testimonianza della temperie condivisa dalla gioventù europea. Ma nemmeno si può sottacerne le differenze.
Come ebbe a spiegare Renzo De Felice, se il nazismo fu il prodotto di una cultura segnata dal radicalismo di destra, il fascismo nacque invece dalle elaborazioni della sinistra rivoluzionaria, quella sindacalista e delle avanguardie artistiche, come dimostrato dallo storico israeliano Zeev Stehrnell, che a Fiume si dettero convegno, producendo un nuovo immaginario collettivo e un testo come la Carta del Carnaro, non a caso redatta da Alceste De Ambris, sindacalista rivoluzionario poi antifascista, capace di mettere a fuoco temi ancora oggi cruciali, come la centralità del lavoro e il sorgere di nuove forme di imperialismo surrettizio e umanitario, rappresentate dalla nascente Società delle Nazioni.
In sostanza a Fiume si forgiò la “nuova Italia”, pienamente inserita nei più ampi scenari di trasformazione europea, sia quella che diede origine al Fascismo, sia quella da cui scaturirono le culture antifasciste e post-fasciste. Celebrare il centenario dell’Impresa, studiandola, serve a comprendere meglio cosa sia oggi il nostro paese.