In anteprima per noi il saggio del professor Paolo Becchi sulla guerra in Ucraina
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PRIMA PARTE
È impossibile capire qualcosa dell’operazione militare russa in Ucraina, finché si continuerà a ripetere la retorica fintamente “pacifista”, “umanitarista”, che dimentica in modo ipocrita la guerra che da otto anni c’è nel Donbass con i suoi massacri continui di civili russofoni (si parla di almeno 14 mila morti) e che nasconde spesso interessi precisi, operazioni politiche poco trasparenti o, al più, il “sentimentalismo” delle anime belle, che vorrebbero che la realtà fosse diversa da come, purtroppo, spesso è. La guerra in Ucraina non è cominciata nelle ultime settimane.
Le cose bisognerebbe vederle, allora, per quelle che sono. Parlare di un tentativo di Putin di rovesciare il “governo legittimo” del presidente Zelensky è quantomeno bizzarro: questo governo è infatti il risultato di un colpo di Stato in piena regola, attuato nel 2014 contro l’allora democraticamente eletto governo di Viktor Janukovyč. Potete chiamarla “rivoluzione”, anziché colpo di Stato, ma i fatti non cambiano: ed i fatti sono che la cacciata di Janukovyč, se fu sostenuta da un movimento popolare, lo fu anche dall’ingerenza dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, e che essa ha determinato una serie di spaccature interne al Paese e quella tensione dei rapporti con la Russia che oggi è giunta a compimento. I fatti sono che il sedicente Occidente “liberale” e “democratico” tesse gli elogi di un governo erede di un golpe che ha chiuso tre canali televisivi che lo criticavano e fatto arrestare Medvedchuk, uno dei leader del partito di opposizione arrivato secondo alle elezioni.
Dopodiché, il problema oggi non è neppure – in fondo – quello di stabilire “chi abbia ragione” e chi torto, chi sia veramente l’”aggredito” e chi l’”aggressore”. Figure che possono anche cambiare soggetto nel corso di un conflitto. E così l’aggredito può diventare aggressore e viceversa. Dopo aver riconosciuto l’indipendenza delle due autoproclamatesi repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk Putin ha avviato una operazione militare anche al di fuori dei territori russofoni dell’Ucraina. Questo ha cambiato la percezione di quanto stesse avvenendo: fino a quel momento si poteva considerare Putin come colui che interveniva per difendere civili russofoni in territorio ucraino da una politica sempre più aggressiva nei loro confronti da parte del governo centrale, dopo Putin è invece finito con l’apparire agli occhi dell’opinione pubblica internazionale come l’aggressore di uno Stato sovrano. Certo, ci si può, ci si deve, schierare, sulla base delle proprie convinzioni politiche, ideologiche, e così via. Ma i fatti e la loro percezione restano e ora è molto difficile prevedere come finirà un conflitto in cui Putin dopo averci messo in questo modo la faccia non può perderla. Quello che però possiamo dire è che l’Unione Europea non ha fatto nulla per evitare un’escalation del conflitto, che anzi ha contribuito ad alimentare. E così siamo in guerra. Una delle tante guerre.
La guerra è certamente un fenomeno storico, e nella storia essa ha significato cose diverse, è stata condotta e regolata in modi diversi, è stata, aggiungiamo, percepita in modo diverso dalle coscienze dei popoli. La guerra che oggi conosciamo non è più ovviamente quella “regolata” del tempo dello jus publicum europaeum, e al suo scoppio i popoli – perlomeno quelli europei – non reagiscono più con quelle manifestazioni di giubilo che accompagnarono, ad esempio, l’entrata nella Prima guerra mondiale di molte delle potenze europee, tra cui l’Italia. I facili entusiasmi popolari del passato sono scomparsi, ma i governi dei popoli europei non hanno certo smesso di approvare, autorizzare, deliberare interventi militari in questi ultimi anni. Persino la Germania, che sinora non lo aveva mai fatto, si è unita agli altri governi ed alle UE nell’approvare all’unanimità l’invio di armi e di militari a sostegno di operazioni di guerra della Nato. E che la Germania, la quale tra l’altro ha deciso di aumentare in modo considerevole le spese in armamenti (salendo così al terzo posto nel mondo per spese militari), possa diventare di nuovo una potenza militare dovrebbe preoccupare tutti.
Nell’ultimo mezzo secolo, abbiamo conosciuto nuovi tipi di guerra – da quelle “umanitarie” alle “guerre preventive” contro i cosiddetti “Stati canaglia”: non più il conflitto regolato ma il “bellum iustum” che in nome della “iusta causa” giustifica ogni nefandezza in spregio al diritto internazionale (l’invasione condotta in Iraq e i bombardamenti in Libia condotti dall’Occidente a guida americana ne sono un chiaro esempio). Guerre “giuste” che, per una sorta di illusione ottica, ci hanno dato la sensazione di un mondo ormai pacificato, quando in realtà si è trattato di una pace assicurata solo ad una porzione, peraltro ristretta, dell’Occidente. Ma la guerra non è mai stata abolita, ed ha continuato – per servirsi della famosa formula di Clausewitz – a servire come “prosecuzione della politica con altri mezzi”. Né è, ovviamente, vero che, almeno sul suolo europeo, essa era stata finalmente sradicata, dopo la Seconda guerra mondiale. Anzi con la fine della “guerra fredda” è cominciata quella calda. È strano quanto poco vengano ricordati in questi giorni, anzi direi rimossi, i raid aerei dell’Alleanza Atlantica contro la Serbia, che durarono per settantotto giorni. Era il 1999, 527 vittime civili.
Sorprende sentire Mario Draghi affermare che «negli ultimi decenni, molti si erano illusi che la guerra non avrebbe più trovato spazio in Europa. Che gli orrori che avevano caratterizzato il Novecento fossero mostruosità irripetibili. Che l’integrazione economica e politica che avevamo perseguito con la creazione dell’Unione Europea ci mettesse a riparo dalla violenza». “Negli ultimi decenni”: forse Mario Draghi non ricorda che fu il governo di Massimo d’Alema a decidere – per quanto probabilmente malvolentieri – l’intervento italiano e mandare i nostri aerei a bombardare Belgrado ed una nazione che confinava con la nostra. E questo – ricordiamolo – per via del Kosovo e qui non può essere ignorato, in linea puramente teorica si intende, il paragone tra i territori russofoni dell’Ucraina e il Kosovo, che presentava una forte componente albanese e rivendicava l’indipedenza dalla Serbia. Almeno D’Alema non pare aver dimenticato quello che successe allora, e onestamente riconosce che «non si può non tenere conto, malgrado Putin, che ci sono anche le ragioni della Russia», che i conflitti e le guerre non solo hanno accompagnato costantemente anche gli ultimi decenni della nostra storia, ma che esse hanno cause e ragioni storiche e politiche che occorrerebbe, perlomeno, conoscere, prima di parlare. E questo vale soprattutto per un Presidente del Consiglio che con le sue parole offensive ha posto in serio pericolo qualsiasi futuro rapporto con la Russia di Putin paragonandolo nel suo discorso di fatto a Hitler, equiparando esplicitamente ciò che sta avvenendo in Ucraina all’annessione dell’Austria, l’occupazione della Cecoslovacchia, l’invasione della Polonia. Colpisce la cosa, perché i “nazisti”, se ve sono, andrebbero cercati, più che in Russia, in quei movimenti che hanno partecipato al colpo di stato del 2014 in Ucraina, e che oggi sono inseriti nelle fila della guardia nazionale ucraina, come pure nei vertici del regime ucraino che considerano come eroe nazionale Stepan Bandera, criminale di guerra che collaborò col Terzo Reich giurando fedeltà al Führer.
Una prima conclusione. Una vera pace in Europa nel secondo dopoguerra non c’è mai stata. Prima l’Europa era divisa con la “guerra fredda” nelle due grandi aree di influenza, dopo con la dissoluzione dell’Unione sovietica la guerra è diventata “calda”. Ed oggi assistiamo ad un episodio di questa guerra, forse il più tragico. Non c’è mai stata vera pace in Europa perché la “questione russa” è rimasta il nodo irrisolto.
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