“Il tempo non esiste”. Addio al Maestro Lino Capolicchio

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Un altro baluardo della cultura italiana se n’è andato. Lino Capolicchio, l’ultimo divo, si è spento il 3 maggio 2022 intorno alle 22:50. Con lui se ne va una grande fetta di storia di questo paese, una storia formata da quella bellezza artistica e umana di cui era capace il compianto maestro. Di lui è difficile delinearne un profilo netto, senza sfumature, senza complessità, perché non appena ci si avvicina con rispetto ad un tale gigante tutti i contorni svaniscono, lasciando spazio ad un lago di storie, di scelte e tante capacità che solo i geni possono avere senza destare il sospetto di poter essere compresi del tutto. Capolicchio, il grande maestro dall’aria aristocratica ed il viso etereo che lo rendevano agli occhi del grande pubblico non solo un volto dalle mille sfumature ma soprattutto un sex symbol, era dotato di un talento indefinibile che lo ha portato a grandi trionfi.

La sua carriera nacque sulle tavole del palcoscenico sotto la sapiente guida di Giorgio Strehler ne “Le baruffe chiozzotte” (1965) di Carlo Goldoni, passando per grandi testi e sceneggiati televisivi campioni d’incassi, finendo col debuttare al cinema come protagonista nell’esordio alla regia di Roberto Faenza dal titolo “Escalation” (1968). Subito dopo entra a far parte del cast internazionale del celebre film “Metti, una sera a cena” (1969) di Giuseppe Patroni Griffi recitando al fianco di prestigiosi interpreti come Jean-Louis Trintignant, Tony Musante, Florinda Bolkan e Annie Girardot. Ma il successo che lo consacrerà definitivamente e per sempre, facendolo divenire una star in tutto il mondo, arriverà grazie al capolavoro di Vittorio De Sica “Il giardino dei Finzi Contini” (1970) tratto dall’omonimo libro di Giorgio Bassani, professore di storia del teatro di Capolicchio quando appena vent’enne frequentava l’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica Silvio D’Amico. La sua memorabile interpretazione, che gli valse la vittoria del David di Donatello come premio speciale e lo consacrerà come mito eterno, meravigliò totalmente Vittorio De Sica che durante le riprese lo fermò per dirgli: “Guaglio’, tu tieni talento!” Da lì in avanti proseguirà un’eclittica carriera decorata di ogni premio possibile, ottenendo il consenso da parte della critica e del grande pubblico, e lavorando con alcuni tra i più famosi registi e attori della sua generazione, collezionando lettere d’amore che le fan di tutto il mondo gli inoltravano quotidianamente.

Capolicchio è stato capace di interpretare una moltitudine di personaggi con la stessa capacità di un camaleonte nel trasformarsi in qualunque cosa al di fuori di sé. Spesso ha definito il mestiere dell’attore “terapeutico” oltre che di grande valore emotivo e culturale, sottolineando la modalità attraverso cui si arriva all’impersonare qualcun altro: “Noi attori abbiamo delle problematiche che riusciamo a sfogare attraverso una serie di personaggi che spesso non coincidono con noi stessi, ma la bellezza del mestiere dell’attore è proprio questa, di essere qualcuno che non ti somiglia assolutamente.

Fondamentale nel suo cammino è stata la fraterna amicizia con Pupi Avati che lo ha diretto in otto lavori, tra televisione e cinema, facendolo divenire un’icona della cinematografia di genere, in particolar modo del gotico-giallo all’italiana, grazie al cult ormai senza tempo “La casa dalle finestre che ridono”. Sono tanti gli autori che lo hanno diretto nelle oltre trenta pellicole da lui impersonate, tra cui Dino Risi, Brunello Rondi, Luigi Filippo D’Amico, Carlo Lizzani, Gian Vittorio Baldi, Massimo Pirri, Stelvio Massi, Pasquale Squitieri, Antonio Bido. Sono da annoverare inoltre le sue impareggiabili interpretazioni come l’avvocato Arduni in “Un apprezzato professionista di sicuro avvenire” (1972) del leggendario Giuseppe De Santis e quella di Luigi in “Fiorile” (1993) dei fratelli Taviani. Si potrebbe parlare per ore di come Capolicchio abbia donato lustro all’Italia e all’arte, anche attraverso il suo contributo da regista cinematografico con due pellicole sublimi, “Pugili” (1995) definito “pasoliniano” dalla critica americana e “Il diario di Matilde Manzoni” (2002) paragonato a Visconti.

Da non dimenticare la sua Bohème portata avanti per oltre sette anni nei più grandi teatri d’Opera, osannata dalla critica e a cui la moglie di Pavarotti si affezionò tanto da precisare: “Pensavo di aver visto per lo meno cento Bohème, ma adesso mi rendo conto che questa è la prima.” Una delle sue ultime apparizioni sul grande schermo è avvenuta nel 2019 con l’ultima fatica gotica tutta avatiana, l’inquietante “Il signor diavolo” che lo vede vestire i panni di un parroco veneto, don. Dario Zanini. Dire che il maestro Capolicchio abbia percorso in prima fila la grande stagione cinematografica e teatrale degli anni sessanta/settanta/ottanta sarebbe un semplice eufemismo. Sono tante le vette da lui solcate, allo stesso modo le emozioni che ha fatto provare a centinaia di migliaia di spettatori i quali lo hanno acclamato per la sua grandezza. Vola via un genio, un artista dalla sensibilità non comune, oltre che il volto di quell’epoca che aveva ancora voglia di sognare. Riavvolgendo il nastro e soffermandosi a quanto accaduto, vengono alla mente le parole conclusive della sua autobiografia, “D’amore non si muore”: “E però, se dopo questa lunga corsa, qualcuno mi chiedesse qual è il momento in cui sono stato più felice, non avrei il minimo dubbio. A Merano, a cinque anni, con la nonna “nera” davanti a quel cono gelato alla panna, spruzzato di amarena.

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1 commento

  1. Capperi! Nel leggere questo articolo pieno di sperticata ammirazione, mi chiedo come non mi sia mai accorto che Capolicchio fosse questo colosso d’attore!

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