Gaetano Castelli: un nome che abbiamo sentito pronunciare per lungo tempo al Festival di Sanremo. I numeri parlano chiaro: negli ultimi 37 anni, per 23 volte è stato lui a firmare la scenografia della kermesse musicale più importante del mondo. Se oggi c’è un interesse così grande verso la scenografia dell’Ariston, il merito è senz’altro suo che ha saputo creare qualcosa di straordinariamente gigante rispetto alle prime edizioni del Festival. Il primo fu nel 1987 (il Sanremo di Tozzi-Morandi-Ruggeri), l’ultimo nel 2024. In mezzo, solo poche edizioni non lo hanno visto in riviera.
Il curriculum di Gaetano Castelli non lascia spazi a dubbi circa la sua eccellenza artistica: Canzonissima, Al Paradise, Fanstastico, Carramba, Stasera pago io, Rock Politik, Luna Park, sono solo alcuni tra i titoli dei programmi le cui scenografie sono state disegnate da lui. “La mia scuola è stata la televisione di Antonello Falqui”, ammette Castelli, “Quella dove tutti lavoravamo per un unico prodotto al servizio di un regista e di un coordinatore che gestivano con poca frenesia e solo tanta attenzione”.

Di come si affacciò al mondo dello spettacolo, racconta così: “I miei genitori erano impiegati dell’Inps. Ricordo che quando arrivò il primo televisore in casa e sentivo dire “Scene di Sinigaglia e regia di Antonello Falqui”, dicevo che avrei voluto lavorare con loro. Mio padre mi voleva ragioniere per lavorare in banca con mio zio, ma non faceva per me: mi feci bocciare, con la complicità di mia madre che mi iscrisse al liceo artistico. Lavorai poi facendo supplenze di disegno. Vinsi la cattedra al liceo artistico, quindi all’Accademia d’arte di scenografia, dove divenni direttore per chiara fama. Mi iscrissi ad architettura e contemporaneamente partecipai a una selezione Rai convinto non mi prendessero.
Invece…
Invece fui chiamato a Torino a fare un programma per ragazzi, quindi a Bolzano e poi mi affidarono programmi culturali giornalistici. Gli scenografi interni al servizio pubblico, all’epoca, mettevano solo un tendone con una gigantografia dietro al conduttore, io avevo una macchina per lo stampaggio della plastica, che non costava molto ma era molto efficace. Piacque. Passai ai programmi di Zavoli e mano a mano arrivai al varietà. Enzo Trapani mi chiamò per uno show con Lola Falana nel 1973, in seguito Fracchia, Al Paradise, che ritengo il miglior programma di sempre, la prima Domenica In a colori con Corrado e tutti gli show del sabato sera.

Nel 1987 il primo Festival di Sanremo. La scalinata con un colore a lei caro, il blu: la prima impronta.
Non c’era l’orchestra, i cantanti fino a qualche anno prima si esibivano addirittura in playback: fu proprio l’inizio per me. Qualche anno dopo, con l’orchestra, bisognava pensare a una scenografia che tenesse conto degli spazi necessari ai musicisti. L’Ariston è un teatro grande, ma piccolo televisivamente: si parla di poco più di venti metri di lunghezza e dieci metri di profondità, praticamente un piccolo salotto per chi come me era abituato al Teatro delle Vittorie. Mi ha sempre divertito giocare con le prospettive dando un senso di grande profondità.
Quali furono i suoi primi apporti?
Inizialmente l’illuminazione era creata solo da lampadine, che richiedevano grande dispendio anche per evitare che si deformassero col calore. Le luci e la scenografia rimanevano quindi separate. Io mi inventai l’idea di miscelare tre tubi al neon giallo rosso e blu: in questo modo potevo ottenere tutti i colori del mondo. Nell’ultimo Festival di Amadeus c’erano 8 km di led dinamico di ultima generazione: avevo creato una specie di “specchio segreto” per cui il palcoscenico poteva risultare più o meno grande a seconda che l’illuminazione arrivasse da davanti o da dietro. Se si accendevano da dietro le luci in controluce lasciando la scenografia trasparente affinché il direttore della fotografia potesse creare tutti i movimenti che voleva. In pratica scenografia e luci oggi fanno tutt’uno. Si lavora comunque in simbiosi con la regia, che indica le ottiche che vorrebbe ottenere. Quindi le si presenta un prototipo 3D e quando la regia arriva in studio sa già dove mettere le telecamere. Per me è importante una regola: mantenere la visibilità della scenografia anche col fumo dei proiettori: ci vuole luminosità.
Diceva dell’arrivo dell’orchestra:un tempo era sul palcoscenico, ora è consuetudine che sia sotto.
È stata una battaglia vinta da me. Baudo voleva dialogare con l’orchestra: dal punto di vista spettacolare forse era più giusto, ma io ho sempre sostenuto che se si è in un teatro, l’orchestra deve stare nel golfo mistico sotto al palcoscenico. In questo modo il conduttore ha più spazio, che altrimenti rimarrebbe ridottissimo considerando quello che occorre per gli ospiti, le vie di emergenza e sicurezza, che richiedono a loro volta obbligatoriamente un sipario. Oggi ci sono cantanti che hanno persino 6 ballerini a volte: deve esserci profondità!
Come convinse Baudo a cambiare?
Piano piano. Dopo il primo Festival di Bonolis, nel 2005, l’orchestra fu spostata sotto. Fino a prima avevamo raggiunto livelli quasi impossibili. Nel 2002 arrivai a mettere in verticale 84 persone d’orchestra su tre piani: chi stava in alto doveva avere uno schermo davanti perché altrimenti non vedeva l’attacco del Maestro. Ricordo che Fiorello scherzando alzò gli occhi e disse: “Dov’è il reparto intimo?”. Gli ricordava la Rinascente!
La scenografia a cui è più legato?
Uscendo dal discorso Sanremo, direi Rock Politik con Celentano: la più grande mai fatta. La realizzammo a Cinecittà e la montammo a Milano, era lunga 80 metri! Riguardo al Festival…è sempre l’ultimo figlio quello a cui si è più affezionati. Mano a mano i materiali sono sempre più evoluti e a questo si aggiunge una certa esperienza anche con tutto lo staff: sapere già nel 2022 che Amadeus ne avrebbe fatti altri due successivamente, ci permise di lavorare con grande serenità. Ci vuole circa un anno per preparare la scenografia adeguatamente. Nel 2012 dovemmo correre: mi diedero l’incarico appena a settembre. Un’impresa!
Sul web in molti ricordano con nostalgia le scenografie degli anni ’90.
Volevo una scenografia teatrale cinematografico: l’immagine era quella di un salone, suggestionati anche dalla vicinanza a Ventimiglia.

Il direttore artistico a cui la legano più ricordi?
Sicuramente Baudo: aveva una visione di spettacolo che si avvicinava alla mia. Pippo comprese per primo l’importanza di una scenografia tridimensionale, anche perché via via il Festival diventava sempre più un grande varietà contenitore, quindi era fondamentale comportarsi come con gli show del sabato sera. Poi con lui ho fatto tutti i Fantastico, Luna Park, sia quello del ’78, sia quello del ’94, con una scenografia immensa che doveva richiamare davvero un Luna Park. Lì però incontrammo anche qualche problema.
Cioè?
La dirigenza Rai dopo un po’ disse che si doveva cambiare la scenografia del gioco della Zingara, che prevedeva una tenda. Ci venne detto che in questo modo avremmo potuto lasciare passare un messaggio di istigazione al gioco d’azzardo. In realtà non costava nulla e aveva un audience pazzesca, ma dovemmo obbedire.
E la scalinata? C’è mai stato qualcuno che si è lamentato direttamente con lei perché la scalinata rischiava di farlo cadere?
No, anche perché io non la condivido onestamente. Sono abituato ai grandi show del sabato sera e a quelli stranieri: mi piace creare attesa, con entrate a scomparsa. Il pubblico non deve avere tutto a vista immediatamente insomma. Eppure la scalinata è un segno sanremese a cui difficilmente si rinuncia. Sa cosa successe con Amadeus?
Ci racconti.
Io gli dissi che se i cantanti venivano inquadrati in piano americano, sarebbe stato meglio avere qualcosa di più pulito rispetto alle righe orizzontali delle scale come sfondo. Lui era d’accordo, ma poi all’ultimo che la scala era un segno troppo forte e inevitabile. Anche con Amadeus però abbiamo dialogato molto bene: nell’ultimo Festival creammo l’effetto sorpresa con due scale laterali, facendo in modo che il conduttore si potesse incontrare a metà strada con altri ospiti.
La identifichiamo tutti con Sanremo, ma qual è la sua città identitaria?
Roma sicuramente. Per uno come me che ama il barocco, essere nato a Roma è una fortuna. I monumenti fanno parte della vita quotidiana, una città inimitabile con contrasti barocchi fenomenali, utili anche a ispirarmi nei miei dipinti. Io sono abituato a osservare i materiali: Roma ha dei colori particolari, per cui le pareti cambiano a seconda degli orari. Poi certo, c’è Sanremo ovviamente che mi ha accolto dandomi tutti i lustri immaginabili.
Non è chiusa la sua storia con Sanremo?
Io spero di no…