Nella città di oggi è sparito il senso di comunità

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La città negli ultimi 50 anni è cambiata. E non sempre in meglio..
Ph. Ale Desiderio - Milano - Panorama ovest da Palazzo Lombardia - Unicredit Tower, Bosco Verticale, Isola, Torre Allianz, San Siro - fonte Flickr

Lo sviluppo spesso porta con sé ambiguità e contraddizioni. Se ne deve tener conto.  Infatti, se si fa tabula rasa del passato rimangono nella memoria tracce di una comunità scomparsa, ma ancora viva nei ricordi di abitudini e modi di vivere che sopravvivono nel tempo. Diceva bene Ernst Bloch quando affermava che la realtà non va interpretata astrattamente ma dialetticamente, ponendo in primo piano la conoscenza della vita nelle sue molteplici espressioni, come si trattasse di un caleidoscopio di esperienze.

Nella storia della città contemporanea lo sviluppo è stato spesso considerato come un percorso lineare e positivo sino ad essere identificato con il progresso, di cui venivano esaltate le qualità prometeiche di un futuro migliore per l’umanità. Per di più lo sviluppo veniva interpretato in termini di crescita fisica della città con nuove costruzioni e l’occupazione di nuovi spazi nelle periferie. Il film “Le mani sulla città” di Francesco Rosi negli anni 60 pone al centro il dramma morale di una società aggredita dalla speculazione edilizia e Antonio Cederna sin dagli anni 50 denuncia gli effetti deleteri di una urbanizzazione selvaggia in una serie di articoli pubblicati su “Il Mondo” e poi raccolti nel libro “I vandali in casa”.

La città negli ultimi cinquant’anni è cambiata. E non sempre in meglio. Almeno per chi vive nel legame passato-presente.  Le sue zone centrali sono state trasformate in centri direzionali e servizi, spesso a discapito di residenti costretti a migrare nelle periferie o in distretti vicini, in nuovi insediamenti anonimi e tutti uguali. Dove si è mantenuta la stessa destinazione d’uso, le vecchie case, con qualche acciacco ma ancora dignitose, sono state sostituite con residenze in linea con la nuova estetica del lusso, ma in effetti in omaggio alla prevaricante logica del consumismo.

Resta il ricordo di cose e segni urbani che non si sono consumati nel tempo. Una memoria che fa rivivere con nostalgia e con qualche rammarico il senso di una comunità ormai scomparsa. Il breve racconto “La vecchia latteria” ne è una struggente testimonianza.

La vecchia latteria

Quando ero da quelle parti entravo per prendere un caffè. La latteria avevaun’unica vetrina sulla strada con qualche adesivo di vecchia pubblicità ormai consunto. La porta cigolava e spesso bisognava spingere per entrare. Un bancone in legno con profili di alluminio mi accoglieva con tazze e cianfrusaglie varie disposte alla rinfusa: caramelle, patatine e cioccolatini con premio assicurato. Nel fondo vari tavolini di plastica con sedie malcerte completavano l’arredo senza pretese o finta civetteria.

Una donna di mezza età, un po’ appesantita ma, come si diceva un tempo, di piacevole aspetto, si muoveva indaffarata dietro il bancone intenta a preparare caffè e a riempire calici di vino. Era sempre sorridente e accoglieva chi entrava con un sonoro buongiorno. Alla mattina le donne entravano, fra una commissione e l’altra, e sembrava che riprendessero un discorso poco prima interrotto. Si parlava di tutto. Del lavoro, dei figli, dei malanni, dei soldi che mancavano. Tutti dicevano la loro e consigliavano il da farsi in un accavallarsi di voci incontenibile. Quando qualcuno riportava la notizia di un malanno grave o di una morte, la partecipazione era sincera e sentita. Tutti si conoscevano. Nel quartiere si spargeva la voce e le testimonianze di affetto e solidarietà si moltiplicavano.

Poi un bel giorno, anzi un brutto giorno, nel quartiere qualcuno decise di cambiare tutto. Arrivarono le gru, si aprirono i cantieri, le vecchie case furono ristrutturate o abbattute. I vecchi cortili non servivano più. E non serviva più lo spirito e la comunità che c’era. Ai vecchi abitanti fu detto che dovevano andarsene e, per comprare il loro consenso, si offrì del danaro. La povera gente, si sa, del danaro ha sempre bisogno e alle avversità è abituata

Le nuove case crescevano come funghi. Con tanto spazio per box e garage, nessuno spazio per incontrarsi. Le finiture erano di lusso: facciate di marmo, pensiline, guardiole, piscine. Il sabato e la domenica venivano i nuovi acquirenti per rendersi conto dell’avanzamento dei lavori. Forse erano felici, ma ignoravano la storia del quartiere e per loro un luogo valeva l’altro. Bastava avere quella proprietà che li faceva sentire importanti.

Quando entrarono nelle nuove case i nuovi acquirenti, di buone disponibilità economiche, si accorsero che esisteva solo la loro abitazione, al di fuori di pochi nuovi servizi. Forse un supermercato e nulla più. La mattina uscivano di buon’ora per andare al lavoro e rientravano la sera tardi. Così tutta la settimana, salvo il venerdì. Quel giorno era un momento liberatorio; le valigie erano già pronte per scappare dalla città e raggiungere luoghi esotici vicini o lontani. Tutto era lecito per dimenticare. Il nuovo quartiere restava deserto.

Ora, quando passo da quelle parti, senza volere cerco la vecchia latteria. Al suo posto c’è un piccolo negozio che ripara cellulari. Allora tiro dritto e mi accorgo che nei miei ricordi si è spento qualcosa.

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Roberto Ugo Nucci
Laureato in Architettura svolge la sua attività professionale a Milano dove apre uno studio di progettazione e consulenza nel campo edile e, nel contesto di iniziative parallele, si dedica a progetti di allestimenti e comunicazione a livello internazionale. Redige numerose relazioni di ricerca e approfondimento di temi tecnici e scrive libri per associazioni di categoria. Collabora a giornali e riviste con articoli di architettura, con particolare riferimento alla città e allo sviluppo urbano. Partecipa come opinionista a trasmissioni televisive nell’ambito di iniziative volte a descrivere con spirito critico la città nei suoi molteplici aspetti e funzioni. Attualmente sta preparando un libro sulla città globalizzata, sui rischi della perdita della sua identità in quella che la cultura sostenitrice del processo di assimilazione progressiva chiama “residenza disaggregata”.