La lunga storia di incomprensioni e di occasioni mancate tra Vibo Valentia e la ferrovia

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La discussione sulla mancata sosta dei treni ad alta velocità nella stazione di Vibo-Pizzo da parte dei treni dell’alta velocità sia pubblici (Frecciarossa di Trenitalia) che privati (Italo) ha avviato un dibattito nel Vibonese che, sebbene basato su alcune linee di principio inoppugnabili, sembrano richiamare antichi dibattitti e confronti che su questo territorio vanno avanti da almeno centocinquant’anni.

È una nuova forma di sterile campanilismo? Già ad una visione superficiale, la risposta è NO.

Non c’è dubbio, infatti, che dimenticare lo scalo ferroviario di Vibo Valentia (in particolare, la stazione di Vibo-Pizzo) significa trascurare un punto di riferimento dalla forte valenza turistica. In provincia di Vibo Valentia sono presenti i principali siti turistici riconosciuti a livello internazionale (basti dire: Pizzo, Tropea, Capo Vaticano), il porto di Vibo Valentia è uno dei principali punti di collegamento con le Isole Eolie e addirittura c’è un entroterra montano che annovera uno dei luoghi più importanti dal punto di vista del turismo religioso e storico-architettonico, ovvero Serra San Bruno con la Certosa, spettacolare luogo di eremitaggio spirituale fondato da San Bruno in persona, mai valorizzato per come storia e bellezza suggeriscono, ma che Papa Benedetto XVI ha voluto visitare da pontefice dandole quella dignità religiosa che merita.

Ciò premesso, si pone un’altra fondamentale domanda: fermare i treni nella stazione di Vibo-Pizzo? In quella stazione così impresentabile? Senza collegamenti che possa consentire, com’è giusto che sia – al viaggiatore la possibilità di raggiungere il luogo della sua vacanza? È, questa, promozione turistica?

Il punto è che tra Vibo Valentia e la linea ferrata non c’è mai stata intesa, non c’è mai stato un buon rapporto: la storia lo ricorda. Perché tutto nasce proprio da un secolare errore storico, compiuto a suo tempo ed al quale non si è più rimediato. Fino ad oggi.

Tutto comincia sul finire del XIX secolo.

In effetti, di ferrovie in Calabria si cominciò a parlare solo negli ultimi anni del Regno delle Due Sicilie, perché si era interessati allo sviluppo di alcune attività industriali legate alle antiche miniere di ferro di Mongiana, della Vallata dello Stilaro e dell’area delle Serre (intorno al 870 furono costruite due tratte da 20 km nel territorio di Ferdinandea, alcuni dei resti della ferrovia sono nei fondali davanti a Monasterace).

La costruzione del collegamento ferroviario Tirrenico era quindi richiesta da più parti; già nel 1861 il ministro Peruzzi aveva proposto il collegamento come di grande utilità per Calabria e Sicilia e nel 1870 la Camera del Regno aveva autorizzato il governo affinché procedesse alla sua costruzione.

La costruzione della Tirrenica tuttavia non iniziò subito: l’incarico, dato dal governo, alla Società per le Strade Ferrate del Mediterraneo non permise un veloce avvio dei lavori progettati e si dovette attendere la riorganizzazione delle ferrovie con la legge e le convenzioni del 1885.

Tra il 1883 e il 1887 erano state attivate infatti solo le tratte Battipaglia-Agropoli-Castelnuovo Vallo di 50 km e Reggio Calabria-Villa san Giovanni-Bagnara di 29 km. È in questo frangente che a Monteleone (l’allora nome dell’attuale Vibo Valentia) si avviò un intenso dibattitto, a volte scontro, sulla scelta del tracciato che la linea ferrata avrebbe dovuto avere all’interno dei confini comunali.

L’argomento fu uno dei temi principali tra quelli trattati per molti anni dal principale giornale della città, L’Avvenire Vibonese, periodico fondato nel 1881 da Eugenio Scalfari. Sì, proprio Eugenio Scalfari. Figura storica della Monteleone a cavallo tra i secoli XIX e XX, massone ed intellettuale tra i più influenti, il nonno del fondatore di “Repubblica” si distinse, anche attraverso il suo giornale, quale portatore di ideali liberal-socialisti, rappresentante di una borghesia dalle nobili origini ed intellettualmente impegnata.

E così, l’argomento della linea ferrata lo ritroviamo in uno dei primi numeri dell’annata 1885, che reca nelle sue pagine interne un corsivo dall’innocente titolo Cronaca, in cui si legge:

            “…Inaugurando il nuovo anno esso (si intende il giornale, ndr) può solo promettere di continuare ad essere, quale fu, un indefesso propugnatore degl’interessi di questa città. La questione ferroviaria studiata da ogni loto, e dimostrata, qual è veramente, vincolata all’esistenza di questa città, alla prosperità di queste contrade, all’esigenze generali ella Eboli-Reggio, sarà sempre il PENSIERO DOMINANTE, che ispirerà questo giornale. Pubblicazione speciale, rivolta al pubblico quasi speciale esso ha il dovere di sacrificare la lusinga di compiacere ai lettori all’altissimo ideale, che per Noi rappresenta la rivendicazione di un diritto, e l’obbligo di consacrarvi tutte le nostre forze per farlo prevalere. In tale intendimento continueremo l’opera nostra colla salda convinzione, ch’essa e destinata a trionfare, colla devozione di cui siamo capaci nel compiere un dovere, colla sicurezza d’interpretare l’unanime sentimento dei nostri concittadini”.

A quel tempo, due erano le tesi sostenute a proposito del tracciato di questa linea ferroviaria. La prima prevedeva il tracciato litoraneo: Reggio Calabria – Gioia Tauro – Briatico – Porto Santa Venera – S. Eufemia – Paola ecc; la seconda proponeva il tracciato interno: Reggio Calabria – Gioia Tauro – Rosarno – Mileto – Monteleone – Piana dell’Angitola ecc.

Le due tesi trovavano sostenitori ed oppositori sia nel paese che nel Parlamento. Naturalmente, Monteleone, sia a livello di popolazione sia a livello di amministrazione comunale, sia a livello di rappresentanza parlamentare, sosteneva in tutti i modi la seconda tesi.

Come ricostruisce lo studioso vibonese Giacinto Namia nel suo volume dedicato proprio a L’Avvenire Vibonese, il giornale condusse un’aspra battaglia in favore del tracciato interno diventando organo del “Comitato per la Variante Interna della Ferrovia Eboli-Reggio”, che si era costituito a Monteleone nel gennaio 1884. Non c’è numero, quasi, delle annate 1884-1885 che non contenga articoli relativi alla questione, ora pieni di baldanza ora pervasi di rammarico e di rabbia.

Il giornale indirizzò particolarmente la sua opera di promozione e di sostegno del tracciato interno su tre motivazioni essenziali:

  1. Motivazione politico-sociale: le popolazioni dei paesi interni della Calabria avrebbero avuto una maggiore possibilità di collegamento e di comunicazione tra di loro;
  2. Motivazione economico-commerciale: i paesi interni avrebbero potuto aiutare e salvaguardare meglio gli interessi dell’agricoltura e del commercio agricolo;
  3. Motivazione strategico-militare: il tracciato interno della linea ferroviaria rendeva la ferrovia stessa meno esposta a pericoli ed a minacce in caso di eventi bellici.

Il “Comitato per la Variante Interna della Ferrovia Eboli-Reggio” ed il giornale diretto da Eugenio Scalfari cercarono con indubbia efficacia tattica di coinvolgere il maggior numero di comuni e di province nel loro programma. L’operazione si presentava particolarmente difficile, giacché all’interno dello stesso collegio elettorale di Monteleone gli interessi del capoluogo, Monteleone appunto, si scontravano con quelli dei comuni marittimi, come Tropea.

Con l’inizio dell’anno 1887, il giornale lascia trasparire qualche segno di stanchezza, pur sostenendo ancora la tesi degli “internisti”.

In realtà, la situazione era venuta via via pericolosa, non solo da punto di vista politico, ma soprattutto dal punto di vista dell’ordine pubblico: le agitazioni e gli scontri che la questione ferroviaria aveva portato con sé rischiavano di spingere la battaglia al di là di quell’alveo di legalità nell’ambito dell’ordine esistente sempre riconosciuto dal giornale, che non poteva arrivare a smentire la sua linea moderata.

L’annata 1887 ripropone ancora articoli e note sulle ferrovie, ma il riferimento alla questione Eboli-Reggio si fa sempre più fioco e la difesa è sempre più debole: fu una lotta destinata al fallimento, nonostante il dispendio di uomini e di energie.

E quel fallimento, i vibonesi se lo portano addosso fino ad oggi.

Aa nulla è valso lo spostamento, negli anni ’70 del scolo scorso, delle attività ferroviarie dalla vecchia stazione di Vibo Marina alla più nuova stazione di Vibo-Pizzo. L’esperimento non è mai decollato perdendo così quella occasione di sviluppo commerciale e di implementazione turistica che avrebbe potuto ridare slancio al territorio.

E poi, rimane irrisolto il problema principale: il necessario supporto infrastrutturale, per cui prima di chiedere che si fermino i principali treni, com’è giusto per le potenzialità offerte dal territorio, vi è la necessità di chiedere, alla Regione innanzitutto, maggiori collegamenti interni, chiedere di incrementare e promuovere collegamenti che portino i viaggiatori che scendono alla stazione verso i luoghi di attrazione per i quali scelgono la Calabria ed il territorio vibonese. Vi è la necessità di dotare la stazione di una presentabilità al momento inesistente perché sciaguratamente ridotta attualmente in un grave ed indecoroso stato di abbandono

Insomma, è la solita storia. Ma che almeno si conosca questa storia!