La pietas di Enea: rimanere quercia nella bufera

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Giovanni Francesco Romanelli, "Venere versa il balsamo sulle ferite di Enea"

Enea, l’eroe che resiste, a volte tacciato ingiustamente di essere noioso, il pius Aeneas. L’eroe che venne a morire nel Lazio, dove oggi sorge Pomezia, Città Identitaria, per ordine degli Dei che gli imposero di tornare (e non “emigrare”) nella terra promessa: l’Italia.

Tanti gli appellativi dati al capostipite della dinastia che avrebbe fondato Roma, messo in secondo piano dalla storia narrata da Omero nell’Iliade, in cui Enea viene oscurato da Achille o dal troiano Ettore. Fu Publio Virgilio Marone nel I secolo a.C. a rendere mitico, e quindi atemporale Enea, protagonista della sua portentosa e letterariamente strabiliante epopea, l’Eneide, con la quale, per volere di Ottaviano Augusto, si unirono due momenti cruciali della historia, la caduta di Troia e la fondazione di Roma, e si legittimò la gens Giulio-Claudia a cui il primo imperatore apparteneva. L’Eneide esiste a causa di Omero, non grazie a Omero. Se Virgilio riprese una storia menzionata forse per la prima volta dal cieco di Chio, non fu affatto per copiarla: fu per renderla magnifica, trasformando un rapido cenno omerico in un poema denso di umanità, drammaticità e poesia.

Enea proveniva dalla città frigia di Dardania, in Asia Minore, fondata da Dardano, figlio di Zeus. Secondo il mito, Anchise, della stirpe di Dardano, stava pascolando il bestiame sul monte Ida quando Afrodite lo vide e si innamorò di lui: dalla loro unione nacque Enea, che sposò Creusa, figlia del re di Troia Priamo. Nell’Iliade la sua figura è descritta con pennellate veloci: è il secondo fra i Troiani dopo Ettore, forse persino inviso a Priamo. Di Enea in quanto capo dei Dardani, alleati dei Troiani, si fanno solo rapidi accenni, per lasciare subito spazio alla profezia di Poseidone circa il suo futuro: “Ecco, ormai Zeus ha in odio la stirpe di Priamo ed ora il forte Enea regnerà sui Troiani e sui figli dei figli e su quelli che nasceranno dopo”. La storia di Enea doveva ancora iniziare e sarà Virgilio a raccontarla delineando una dinastia che partendo direttamente da Iulo Ascanio, figlio di Enea, arriva ad Ottaviano Augusto, l’uomo che fece di Roma un Impero.

La trama dell’Eneide non è quella di un racconto “a imprese”, bensì “a missione”, ovvero la fondazione finale di Roma, stabilita dal Fato e svelata al lettore al secondo verso, senza alcuna pretesa di suspence. Un eroe troiano, fato profugus, viaggia in lungo e in largo per mare scontando l’ostilità della dea Giunone, amando Didone, fino ad approdare in Italia, nel Lazio. Curiosa è l’etimologia che Virgilio propone per il termine “Lazio”, dal latino latere, che vuol dire proprio “celarsi”, per cui Lazio significherebbe “nascondiglio”; il nascondiglio di Saturno, che, leggenda vuole, inaugurò sulla terra l’età dell’oro e che proprio nei pressi di Roma si nascose quando venne esautorato da Giove. Privilegio degli eroi è poter riassumere la loro vita in una parola soltanto, nel caso di Enea in un aggettivo: pio, il pio che aveva come meta l’Italia.

Sum pius Aeneas, raptos qui ex hoste penates
Classe veho mecum, fama super aethera notus;
Italiam quaero patriam.

Sono il pio Enea e porto sulle mie navi i Penati
strappati al nemico – sono noto fin oltre il cielo.
Cerco in Italia una patria.

(Eneide, I, 378-380)

Basterebbero questi tre versi a illuminare tutto il senso dell’Eneide e a farne il poema necessario. Enea, dichiara Virgilio, è alla ricerca di un luogo da chiamare patria, è un esule, un eroe del dopoguerra. E se viaggia, lo fa con l’obiettivo di fermarsi, di costruire e fondare qualcosa non per sé, ma per coloro che verranno dopo di lui. Quello che contraddistingue l’eroe Enea non è la forza nel combattimento perché la sua audacia risiede nella pietas: a Enea è stato troppo spesso rimproverato di essere arrivato in Lazio sprovvisto di piè veloce e di multiforme ingegno, ma dalla sua ha la fortuna di conoscere la pietas – parola latina che non va tradotta con la “pietà” nell’accezione italiana. La pietas virgiliana è il senso del dovere. Enea agisce con la serietà e secondo i riti prescritti dagli Dèi (i penati), quindi l’azione svolta secondo un ordine più grande, il Fato. Dopo aver sperimentato le macerie di Troia, la pietas è per Enea la più grande benedizione: rimanere quercia nella bufera. Così fa quando deve lasciare l’amata Didone, sacrificando i propri desideri in nome di uno scopo più grande, così fa quando arriva in Lazio, dove deve scontrarsi con i Rutuli guidati da Turno, gli antagonisti dei futuri Romani. Nell’Eneide i Rutuli si agitano, fanno quello che ci si aspetterebbe dagli eroi omerici, urlano, assaltano ma alla fine perdono. Perdono sconfitti dalla calcolata astuzia di Enea, che rigettata l’irrazionale brutalità dei suoi avversari e si prepara a coltivare nel Lazio il seme per quella che sarebbe diventata Roma, un riuscito sincretismo tra grecità e sangue italico. L’Eneide non si conclude infatti con la fondazione di Roma ma con la spada di Enea che s’infila dritta nel petto di Turno. Saranno i discendenti di Enea a fondare Roma, destinata per sempre, secondo Virgilio, a garantire al mondo una pace universale.

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