Cammillo, trattoria storica dell’Oltrarno fiorentino, luogo ad alto coefficiente di italianità, chiude a causa degli ultimi dpcm. Ecco cosa ci racconta Chiara, la padrona di casa ed erede di uno spaccato di storia.
Fu mio nonno che aprì nel 1942 vicino al Ponte Vecchio, insieme con moglie, figli e sorella; erano stati sfollati dal paesino di origine, Quaracchi, in periferia.
Gli buttarono giù la casa e furono portati a vivere a Firenze, dove non avevano parenti o amici. Firenze era piena di militari e mio nonno doveva andare in cerca di lavoro, ma non voleva lasciare la famiglia. Così, pensò che fosse utile fare un’osteria, per dare da mangiare ai militari.
Il mio babbo lavorava all’ospedale militare su Costa San Giorgio e con i commilitoni andavano a mangiare all’osteria di mio nonno. Lì conobbe mia madre e se ne innamorò.
Nel ‘44 i tedeschi buttarono giù tutti i ponti, tranne il Ponte Vecchio e fecero esplodere la maggior parte dei palazzi al di qua e al di là del ponte e anche quello dove si trovava l’osteria.
Dato il bombardamento dei palazzi, nel 1945 si spostarono dove ancora oggi si trova il ristorante, in Borgo San Jacopo. All’epoca c’era una sola stanza, quella di ingresso, con la cucina. Il nome è rimasto Cammillo, in onore al nonno, ma divenne ristorante vero e proprio grazie all’intervento, alla cura e la dedizione di mio padre e mia madre.
Mio padre non era fiorentino, ma bolognese e mia madre racconta ancora oggi che a quell’epoca si riconoscevano bene i bolognesi dai fiorentini, i fiorentini sono chiusi diffidenti. Lui era brillante, sorridente, pieno di iniziative, spiccava in mezzo agli altri, non solo per una questione di carattere, ma di natali.
Questo è anche il motivo per il quale il ragù non è così pomodoroso, perché è all’uso di Bologna, così come i tagliolini o le tagliatelle che serviamo. Inoltre, data la sua apertura mentale, fu molto bravo, ci sapeva fare con i clienti, allargò lo spazio, prese la stanza a fianco e poi quella ancora a lato, il piano di sopra, fino a trasformarlo nel locale di oggi.
Una storia che si passa il testimone di generazione in generazione. Hai figli?
Ho due figlie, Vittoria e Matilde, rispettivamente di 32 e 25 anni, che saranno probabilmente la quarta generazione, sperando che la bomba non esploda di nuovo.
Tu hai chiuso, perché?
Questo è un ristorante aperto a pranzo e a cena, ma non è esattamente un ristorante da pranzo veloce o pausa pranzo, si chiama trattoria, ma ha tutte le caratteristiche di un ristorante: si mangia sulla tovaglia di stoffa, con il tovagliolo di stoffa, ci sono i camerieri professionisti, il menù è vasto; inoltre le persone che vengono qui a pranzo di solito consumano meno che non a cena, la sera si possono rilassare di più. Con l’obbligo del dpcm precedente, c’era la chiusura alle 18 e avremmo potuto lavorare solo a pranzo e con il solo pranzo noi non ce la possiamo fare, le spese sono tante, non farei pari.
La squadra di Cammillo è storica, ci sei tu con tuo marito, le tue figlie che ti aiutano in cassa e ai tavoli, i vostri camerieri, lo chef, siete una famiglia.
Proprio così. L’ultimo che è andato in pensione ci è andato dopo quarantadue anni di frequentazione di Cammillo. Lo chef di oggi è arrivato che aveva quindici anni, oggi ne ha cinquantasette. Pranziamo e ceniamo insieme tutti i giorni. Poi ci sono io, l’unica femmina, che faccio un po’ la mamma a tutti. Penso sempre anche che quando una persona va al ristorante a mangiare, oltre al cibo e alla qualità degli ingredienti, abbia bisogno di un posto dove trovare accoglienza, calore e sorrisi, dove si respiri aria di casa, altrimenti il convivio non si esprime.
Sei l’unica vera Oste con la O maiuscola, donna, di tutta Firenze.
Oddio, non ci avevo mai pensato, è vero! Sono l’unica femmina in città!
Sì Chiara e il tuo ristorante si è sempre distinto come luogo di incontro, di condivisione, si mangia vicino agli altri, si fa amicizia, si respira cultura, ci sono tanti disegni meravigliosi appesi alle paretie dei quadri che raccontano il paesaggio che circonda Firenze.
Quelli sono tutti quadri comprati da mio padre durante la sua lunghissima carriera qui dentro. Sono quadri di frequentatori, di buoni conoscenti, pittori o anche semplicemente avventori che in cambio di cibo contrattavano con un quadro prodotto da loro. Ricordo che un assiduo frequentatore della trattoria era Ottone Rosai. Ma mio padre non lo amava, la sua pittura non gli piaceva e da lui non ha mai accettato niente!
Avete resistito alla globalizzazione e la cucina è un’arte, forse la prima forma di cultura, dopo che la primaria necessità, quella di cibarsi, è diventata anche espressione, di un popolo o di un territorio, cultura appunto.
Proprio così. C’è da dire che comunque, che a parte piccoli cambiamenti, non ci siamo mai piegati alle mode, alla nouvelle cuisine, alla cucina fusion. Dai tempi di mio padre, quando ero ancora una ragazzina, venivo qui a dare una mano, a fare i conti, come succede in tutte le aziende di famiglia. Mi ricordo gli americani che pasteggiavano col cappuccino.
Li hai educati? Brava!
No, beh si sono educati da soli grazie al cielo. Proprio perché come dicevi tu, la cucina è cultura, il cibo è cultura e piano piano le persone imparano, studiano, si raffinano.
Sei uno dei pochi locali davvero internazionali a Firenze, hai molti clienti stranieri, scrittori, giornalisti, professori, che raccoglie i migliori forestieri che un Paese possa ricevere, una “fusion” fatta ad arte…
Si, direi di sì. Per un periodo, dieci o quindici anni fa, quando sono rimasta sola a gestirlo, mi sono accorta che in molte altre cucine si tendeva a mettere quindici ingredienti diversi, pur di firmarlo da chef. Una cosa che rifuggo e che non condivido assolutamente. Credo che quando si mangia qualcosa, sia giusto riconoscere i sapori di ciò che c’è dentro.
Quando un cliente torna a casa sarebbe bello che la sua memoria riconosca quei sapori che ha trovato nel piatto, non la confusione.
Rifuggire la modernità restando sempre contemporanei. Un’incorruttibile artista. La tua storia imprenditoriale mi ricorda questo, i quadri alle pareti ricalcano perfettamente il tuo modo di essere. Ma c’è un piatto esotico famosissimo nella tua trattoria, i gamberi al curry!
I miei gamberi al curry hanno una storia, in realtà tutta fiorentina e sono nel menù dagli anni ’50. Il legame stretto con gli inglesi e la città di Firenze. La maggior parte di queste persone mangiavano per assonanza e suono, da Harry’s Bar, dall’altra parte dell’Arno e Harry’s Bar aveva questo piatto nel menù, un curry di gamberi con riso pilaf che veniva accompagnato da una salsa chutney di mango. Quando si sparse la voce che mio padre era bravissimo e che da Cammillo si stava bene, molte persone che andavano da Harry’s Bar si trasferirono da Cammillo e chiesero a mio padre di fare questo piatto. A questo punto cominciammo a farlo anche noi e che pur essendo un piatto esotico, è in realtà attinente alla fiorentinità del subito dopoguerra, qualcosa di antico ormai!
Far sentire a proprio agio le persone è una vocazione e la cucina parla per voi
Certo, non siamo un fast food, non è replicabile la nostra attività, non è esportabile, non potrà mai diventare un franchising, tutti i piatti possono cambiare di giorno in giorno, a seconda di cosa trovo al mercato, di come mi sono svegliata, di quello che mi dico con lo chef la mattina…a proposito del curry, io vado molto orgogliosa del mio mango chutney, che prima importavamo da un’azienda milanese, ma la cui azienda poi ad un certo punto è sparita nel nulla. Così, per rimpiazzarlo, ho cominciato a sperimentare: avevo un vecchio barattolo indiano e sul barattolo c’erano gli ingredienti, ma certo non la ricetta. Erano gli anni ottanta e non c’era nemmeno internet. Mi chiusi in casa e in una settimana aumentando e diminuendo le dosi degli ingredienti, inventandomi anche il processo di cottura, sono arrivata al sapore che mi ricordava il curry di Cammillo.
E tu fai anche il fois gras!!!
Anche i francesi a volte mi fanno i complimenti, benché tutte le volte che lo servo loro mi guardano come per dire “stai parlando in casa dell’impiccato”. Poi lo assaggiano e … “è più buono di quello della mia mamma”.
Una vita spesa per passione…
Già, i soldi con la ristorazione oggi è difficile farli, io mi accontento di ricevere i complimenti, è ciò per cui vivo, è il mio piccolo grande orgoglio.
La forza sta nell’essere originali, certo sarebbe impossibile clonarti all’estero, questo è vero Made in Italy, come si dice in inglese…
Dieci cuochi con gli stessi ingredienti fanno dieci ragù diversi. I pomodori sono più o meno acidi o meno dolci, a seconda della raccolta del campo, nulla è replicabile quando si utilizzano ingredienti naturali. Il vino della casa è di mio fratello, l’olio è il nostro di zona.
Non usiamo semilavorati, il brodo ad esempio lo facciamo tutti i giorni, non ci sono dadi o altro. Mai usato ad esempio, essendo questa la stagione, il tartufo in burro o olio, ma solo grattugiato fresco, che noi usiamo sull’unico gelato artigianale di Firenze, gelato alla crema, fatto di sole uova.
La corruzione della globalizzazione non vi ha toccato a voi di Cammillo, ma tutto intorno non vedo una Firenze che conosco, è cambiata molto, moltissimo. Come te lo spieghi? I veri “bottegai” si permettevano persino il lusso di non vendere al cliente antipatico.
Questo è dovuto alla poca lungimiranza dei politici e della loro gestione della città. L’Oltrarno, dove siamo noi, per centinaia di anni era la sede degli artigiani, quartiere popolare. Se un fondo di un corniciaio è di proprietà di chi può chiedere quattro volte tanto con un bed and breakfast, accade che il corniciaio scompaia, il luogo si snaturi, che vengano ricavati spazi con luci di seconda o di terza da un cavedio di una corte interna trasformandolo in abitazione perché se ne dà il permesso. Chiunque avrebbe scambiato la connotazione della città per danaro e questo è successo. Inoltre si è perso il servizio, e dal bed and breakfast si è passati al panino veloce e così via, in un processo costante e distruttivo di disumanizzazione delle attività. Questo succede da tempo, ad esempio, nel bancone del mio ristorate tengo gli insaccati, ne ho cinque o sei diversi. Di questi, ognuno lo compro da fornitori diversi, chi mi fa il prosciutto magari non mi fa una buona finocchiona, chi mi fa la buona finocchiona secondo me magari non fa bene il salame e così via. Sono tutti artigiani i miei fornitori, piccole botteghe a tradizione familiare. Ma nel momento in cui mi si obbliga a comprar merce fatturata soltanto con fatturazione elettronica, ecco che mi si sta dicendo che sbaglio e mi si costringe a rivolgermi ai grandi fornitori, perché il mio norcino non può spendere tutto quel danaro per il software che gli consente di fare fatture elettroniche e mandarmi una PEC.
Lo Stato avrebbe dovuto mettere in condizione di sicurezza l’intera catena, quella appunto del Made in Italy. Credi che migliorerà la situazione?
Posso dire che la cultura del palato è importante, anche per i nostri bambini, credo non ci sia molto da fare per frenare tutto questo, in parte è già andato, indietro non si torna, ma noi cerchiamo di resistere.