L’attualità di un romanzo distopico anti-comunista

0

Noi del russo Zamjatin è la pietra miliare del genere

L’avvento della pandemia ha dato a molti la sensazione d’essersi ritrovati in un inopinato scenario distopico. Le restrizioni alle libertà personali, in barba a diritti sanciti dalla Costituzione, hanno fatto riaffiorare alla mente classici della letteratura. L’impatto che il virus ha avuto sui sistemi politici appare il compimento delle profezie di grandi autori: vengono costantemente citati, a tal proposito, i vari Ray Bradbury con il suo Fahrenheit 451, George Orwell con La fattoria degli animali e soprattutto 1984, Aldous Huxley con il Il mondo nuovo e persino Isaac Asimov che con il suo Visioni di robot trent’anni fa aveva previsto la deriva transumanista del combinato disposto tra progresso tecnologico e «distanziamento sociale». Nessuno o quasi, tuttavia, ha associato quest’epoca di titanica trasformazione planetaria a un grande classico della letteratura distopica, un capostipite del genere, una pietra miliare dei romanzi di denuncia socio-politico.

Corre l’anno 1919, la Russia dell’elegante tradizione zarista sta soffocando, schiacciata dall’impeto dell’orda rossa. La violenta irruzione di masse impersonali nella vita sociale russa e il processo di nascita dell’Unione Sovietica provocano turbamento in Evgenij Ivanovic Zamjatin, tra i più talentuosi scrittori del primo Novecento. Inizialmente guarda con interesse alla Rivoluzione d’Ottobre, ma presto intuisce che dietro slogan immediati e pur suggestivi si cela la filigrana di uno dei regimi più oppressivi della storia, avido di sacrificare l’eredità culturale russa sull’altare del collettivismo. All’inizio degli anni 20 gli scritti di Zamjatin sono sempre più critici, ma il punto di rottura con le autorità sovietiche si consuma nel 1927 quando, a sua insaputa, viene pubblicato in una rivista praghese da un gruppo di emigrati russi il suo romanzo Noi. Le pagine di questo libro sono dinamite pura lanciata nel cuore del Soviet. Soltanto l’intercessione di un suo amico scrittore vicino al regime, Maksim Gor’kij, consente a Zamjatin di lasciare la Russia senza subire castighi peggiori. È così che si stabilisce a Parigi e Noi viene gettato nell’oblio da Stalin. Occorre aspettare l’ormai prossima implosione del regime comunista, nel 1988, per sancire la riabilitazione postuma di Zamjatin e la pubblicazione anche in patria del suo Noi.

Un titolo, Noi, che contiene già una corrosiva accusa nei confronti della società degli automi imposta dall’Unione Sovietica. Addio io, addio realizzazione dell’individuo, della famiglia, delle piccole comunità: l’unica entità riconosciuta è quella del lavoratore che attraverso una monotona mansione contribuisce al presunto progresso dello Stato. Eloquente che il protagonista del romanzo, ambientato in un futuro dalle sinistre analogie con l’attualità che va realizzandosi, non abbia un nome proprio. Si chiama D-503, è un giovane ingegnere impegnato a costruire una navicella, per consentire allo Stato Unico di diffondere la propria ideologia ovunque. Ma la sua posizione privilegiata non basta a gratificare D-503. L’annullamento dell’individualità, lo smantellamento delle emozioni sono zavorre dell’anima. Ecco allora che l’incontro con una ragazza, riluttante alla «nuova normalità» sancita dallo Stato Unico, diventa occasione per l’anima di questo freddo ingegnere di librare verso orizzonti di ribellione. Edito in Italia da Voland, Noi è un inno alla libertà e un vero e proprio strumento di consapevolezza in tempi – anche questi – di rivoluzione socio-politica.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

dodici − 3 =