Le Forze Armate fondamento della comunità nazionale

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Oggi come ieri i nostri soldati come architrave della comunità nazionale

Per comprendere l’importanza delle nostre Forze Armate dovremmo compiere un esercizio di immaginazione e rievocare i secoli in cui non vi era uno Stato unitario e un Esercito di popolo. I piccoli Stati regionali italiani furono scrigni preziosi di cultura e anche di ricchezza per tutto il Medio Evo, ma agli albori dell’età moderna essi apparivano tragicamente piccoli e ormai imbelli.

Con l’avvento delle monarchie nazionali la cavalleria cedeva il passo alla fanteria, il cavaliere armato di lancia e spada conservava la sua gloria araldica, ma sui campi di battaglia vinceva chi schierava la fanteria più numerosa e meglio dotata di armi da fuoco. Nell’Italia divisa, i signori continuavano ad affidarsi a milizie cittadine sempre più patetiche e commettevano il tragico errore segnalato da Machiavelli di assoldare truppe mercenarie: gli inaffidabili professionisti della guerra.

Fu così che una penisola divisa e debole assisteva al tramonto delle sue fortune politiche mentre nelle altre regioni d’Europa albeggiava l’epoca degli Stati moderni impegnati in sfide continentali e proiettati sugli oceani. A proposito di mari, l’Italia nel Medio Evo vantava le marine più importanti: quelle di Venezia e Genova, erano marine nello stesso tempo commerciali e militari, ma il guaio è che esse si annullavano a vicenda, mentre il baricentro della storia occidentale si spostava sull’Oceano Atlantico.

Gli Italiani continuavano ad essere individualmente valorosi, si pensi al principe Eugenio comandante delle truppe imperiali che diede il colpo più duro alla pretesa egemonica dei Turchi sul continente europeo, ma sul piano comunitario noi retrocedevamo a terra di conquista e di egemonia straniera, quando la stessa Chiesa di Roma, esauriti gli ardori della Controriforma, perdeva la sua capacità di tessere trame geopolitiche.

Per questo occorrerà elogiare un personaggio complesso come Napoleone Bonaparte, francese ma anche italiano, padrone severo e nello stesso tempo suscitatore di energie, per aver ridestato in Italia il valore militare a livello non solo individuale, ma collettivo. Nelle campagne militari di Napoleone una generazione di giovani Italiani riscoprirono la loro capacità di portare le armi. Anche chi combatté contro Napoleone nel nome di ideali legittimisti o sanfedisti fu paradossalmente ridestato dal torpore dei secoli precedenti.

Non è un caso che i protagonisti delle prime lotte risorgimentali hanno biografie che ci parlano di una giovinezza napoleonica… Erano ufficiali napoleonici o murattiani (nel Sud Italia) i più attivi congiurati della carboneria; era stato giovane ufficiale napoleonico Carlo Alberto di Savoia, il primo sovrano a concedere con convinzione una Costituzione liberale. Napoleone, francese di Corsica, dunque italiano per sangue e affetti familiari, aveva riacceso la scintilla del combattentismo in Italia.

DAL PIEMONTE LA FORZA DI UN ESERCITO REGOLARE

Qui si tocca un punto fondamentale della nostra storia patria. Era possibile un movimento di liberazione nazionale senza la forza di un esercito regolare? I fallimenti pratici di Mazzini erano lì a dimostrare come non si potesse fare affidamento sul semplice “apostolato” e sull’afflusso spontaneo di volontari. Occorreva un esercito disciplinato e organizzato come istituzione, collegato a un governo capace di tessere alleanze internazionali, perché per cacciare dall’Italia le truppe di una superpotenza come l’Austria occorreva coinvolgere – ovviamente solleticando i loro interessi – le altre superpotenze dell’epoca come la Francia di Napoleone III e l’Inghilterra. L’esercito che alla fine fu decisivo fu quello del Regno di Sardegna e il governo che fu determinante fu quello del piemontese Cavour.

Dalla monarchia militare dei Savoia scaturisce il primo germe dell’Esercito italiano, con i suoi corpi più caratteristici come quello dei Bersaglieri.

A metà strada tra l’Esercito istituzionale dei Piemontesi e l’ardente volontarismo vi era Garibaldi. Il Generale nizzardo è il grande trascinatore, ma ha l’intelligenza di capire che per fare l’Italia occorreva il difficile compromesso con i vertici istituzionali di Torino. Un compromesso duro e amaro come il piombo che lo ferì ad una gamba quando cercò di forzare gli eventi di marciare su Roma. Piombo sparato appunto da soldati dell’esercito regolare ormai “italiano”. Un increscioso scontro tra Italiani che si sarebbe ripetuto nel Natale di sangue del 1920 quando ai soldati dell’esercito regolare toccò l’ingrato compito di sparare sui legionari di d’Annunzio che a Fiume avevano creato l’ultima delle repubbliche risorgimentali, grazie al genio visionario di Gabriele e a quello più concretamente politico-sociale di Alceste De Ambris. La Carta del Carnaro andrebbe in effetti letta in congiunzione con la Costituzione della Repubblica Romana di Mazzini.

I CARABINIERI PER SPADOLINI MISSIONARI CIVILI

Ma torniamo alla fase aurorale dello Stato Italiano, quando nella organizzazione delle moltitudini di Italiani che mai erano stati insieme sotto una istituzione politica unitaria la leva militare svolse un ruolo fondamentale. E fondamentali furono anche i Carabinieri che da uno storico rigoroso, poco avvezzo alla retorica, come Giovanni Spadolini, sono stati considerati come una sorta di “missionari laici” dello Stato nazionale. In effetti il Carabiniere, che pure rientra nella grande famiglia delle Forze Armate italiane, esercitando con fermezza, ma anche con quella benevolenza dipinta sugli schermi dal maresciallo cinematografico Vittorio De Sica hanno rappresentato la spina dorsale di una nazione per secoli divisa, rendendo meno fragile la sua recente unificazione. Fino a giungere a vertici di sacrificio che la vicenda di Salvo D’Acquisto simboleggia in maniera inequivocabile.
Intanto all’articolarsi della vita politica nazionale corrisponde l’irrobustirsi della compagine militare: dopo la proclamazione di Roma capitale nascono gli Alpini – con un forte senso di compenetrazione tra virtù militare e conoscenza del territorio – e per gustoso paradosso italico nascono non in una città dell’Estremo Nord come ci si aspetterebbe, bensì a Napoli… L’ottobre scorso proprio ad Ottobre sono stati celebrati i primi Centocinquanta anni delle Penne Nere.

L’ITALIA: UNA POTENZA SUL MARE E NEI CIELI

Intanto si dispiegano i mezzi della Marina Militare. Un certo gusto per l’autodenigrazione ha fatto dimenticare come l’Italia alla fine dell’Ottocento rientrasse di fatto nel novero delle grandi potenze marittime e l’impresa di Libia del 1910-11 che sferra il primo colpo fatale al dominio turco sul Mediterraneo è lì a dimostrarlo.

Peraltro la guerra di Libia e poi la Prima Guerra Mondiale segnano i primi sviluppi dell’Aeronautica italiana, che passa dalla fase pionieristica di d’Annunzio e Baracca a quella più solidamente organizzata per impulso principalmente di Italo Balbo. Teniamo presente nello stesso tempo che le grandi diramazioni dell’Esercito al di là delle comprensibili (o incomprensibili) rivalità si intrecciano tra loro: ecco allora sorgere i Paracadutisti della Folgore come elemento di intersezione tra Fanteria e Aeronautica e i Lagunari (i Marines italiani…) come giuntura tra l’esercito di Terra e quello di Mare.

Il Fascismo esagerò nel voler militarizzare tutto, nel trasformare la società civile in una caserma. Il soldato è una funzione essenziale nell’organismo di una nazione e in quanto tale deve mantenere un ruolo distinto, che non può essere generalizzato. La sconfitta nella seconda guerra mondiale segnò la oscillazione tra due estremi: dal militarismo spinto si passò a una esaltazione dell’essere imbelli. Questa seconda condizione è più facile quando si è all’interno di una forte rete di protezione internazionale (la NATO del dopoguerra), mentre comincia a farsi pericolosa nelle acque agitate della contemporaneità quando nazioni prospere, ma percepite come militarmente indecise rischiano di perdere occasioni storiche importanti o di subire prevaricazioni in quella che in un passato recente era ancora la propria sfera di influenza. Si pensi al caso della Libia: ultimamente il governo di Tripoli aveva offerto le chiavi di casa in cambio di un protettorato militare che Roma non si è sentita di svolgere; a quel punto i Turchi hanno fiutato l’occasione storica di una revanche rispetto alla guerra del 1911 e si sono presi al volo quelle chiavi e anche le motovedette che avevamo fornito al governo internazionalmente riconosciuto di Libia… Decisamente il mondo non è fatto per gli imbelli, che di tanto in tanto rischiano di fare la figura degli imbecilli…

Certo, un lavoro ricostruttivo del ruolo delle nostre Forze Armate richiede innanzitutto un esercizio di pensiero strategico. L’Italia deve tornare a percepirsi nel giusto modo come “superpotenza culturale” e nello stesso tempo come “media potenza regionale”. Ritrovare il giusto mezzo tra il nazionalismo esasperato degli anni precedenti la seconda guerra mondiale e la “vacanza dalla storia” che ha caratterizzato la smobilitazione della seconda metà del Novecento dovrebbe essere il compito di politici più accorti di nuova generazione.

Negli ultimi anni l’Esercito ha rinnovato la sua immagine mostrando con orgoglio il volto più nobile dell’Italianità nelle varie missioni di pace. La Marina ha dimostrato il suo valore nelle attività anti-pirateria e ultimamente ha sfornato un nuovo interessante modello di fregate come le Fremm. L’Aeronautica proprio in questi giorni sul delicatissimo versante dell’Est Europa ha dimostrato di non tirarsi indietro quando “il gioco si fa duro”. I Carabinieri, dopo il sacrificio di un grande italiano come il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa hanno superato definitivamente la tristissima stagione delle “barzellette” o delle commediacce cinematografiche sull’Arma. Ma per un rilancio occorre una strategia politica (e a sua volta la strategia politica affonda le sue radici in una strategia culturale). Il soldato italiano, con valore, seguirà.

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