Leandro Amato: “Mio padre Alberto fra le voci identitarie di Napoli”

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Di quanto la canzone napoletana sia la madre della nostra musica, si è raccontato spesso ed è ricordato persino nella celebre Madunina di Giovanni D’Anzi. Troppo raramente, però, si parla di chi quella canzone l’ha resa così importante e addirittura iconica. Vi vogliamo oggi parlare allora di Alberto Amato, uno dei più grandi interpreti in assoluto della nostra musica, purtroppo a volte dimenticato. Eppure appena cerchi su Internet alcuni tra i più famosi titoli delle canzoni napoletane anni ‘40-‘50, ti ritrovi ad ascoltare la sua voce inconfondibile. Canzone appassiunata, Che t’aggia dì, Scalinatella, Mellunà, Silenzio cantatore, Signora Nostalgia: sono tutti brani scritti da Gennaro Pasquariello e portati al successo dalla voce di Alberto Amato. Un timbro conosciuto persino in America, dove il cantante si recò in tournée a fine anni ‘50, nello stesso periodo in cui in Italia stava per esplodere il boom Modugno. Lì rilanciò anche la famosa Santa Lucia luntana (dedicata al borgo partenopeo nel quale peraltro nacque), di E.A. Mario, interpretata già da tanti cantanti e motivo di una diatriba tra l’autore e Pasquariello, inizialmente indicato come primo esecutore del brano. In qualche modo dunque, Amato anni dopo fu una sorta di di collante tra i due storici autori, interpretando quella melodia insieme ad altre opere dello stesso Pasquariello, celebrato come uno dei più importanti fautori di quella musica. All’epoca c’era ancora quel tipo di riconoscenza, che oggi abbiamo ahinoi un po’ perso. Lo abbiamo voluto ricordare quindi, a pochi giorni dalla ricorrenza della sua nascita (avrebbe compiuto 113 anni il 28 aprile) con suo figlio, Leandro. Protagonista anche del musical Mare Fuori, pronto a una nuova regia lirica e ad un’avventura teatrale con Vanessa Gravina, Leandro Amato fa così anche una riflessione intorno al ruolo della musica napoletana nella nostra storia.

Leandro, si parla sempre poco di tuo padre Alberto: forse lui stesso non ha mai voluto eccessivamente riflettori puntati. Troppo umile per il mondo artistico?

Credo che non abbia mai saputo promuoversi più di tanto, nonostante avesse lanciato tantissimi brani, vincendo anche il Festival di Napoli e prendendo spesso parte alla Festa di Piedigrotta. Sì, può darsi fosse troppo umile, ma credo facesse parte di una signorilità d’altri tempi: un modo di interpretare l’arte in punta di piedi, con rispetto e passione.

La popolarità cominciò all’Eiar (RAI).

Erano gli anni in cui i cantanti si esprimevano principalmente in radio con le loro interpretazioni. Mio padre fu uno dei primi cantanti dell’Eiar, dopo aver vinto un concorso a Milano, da cui dovette andare via dopo poco a causa dei bombardamenti. Vi ritornò dopo la guerra, lavorando per tanti anni con la casa discografica Odeon. Lanciò quindi tantissime canzoni di successo nello stesso periodo in cui c’erano colleghi come Franco Ricci e Sergio Bruni.

Tutti spesso dimenticati spesso dimenticati.

Ci fu un periodo in un cui la canzone napoletana fu messa da parte, in quanto considerata troppo vecchia. Invece da sempre in tanti attingevano da quel modo di scrivere: uno dei primi era stato anni prima un certo Giacomo Puccini. Nessuno lo ammetteva, quindi, ma in molti presero a studiare la musica seguendo l’esempio della canzone napoletana. 

Alberto era il “bello dagli occhi azzurri”, che poi partecipò anche a qualche film. Suscitava un certo fascino sulle donne?

Altro che! Una volta, in teatro, delle donne si presero addirittura a coltelli per lui. E purtroppo non sto scherzando! Aveva un grandissimo fascino coi suoi occhi azzurro mare e una voce delicata ma, al tempo stesso, ricca di acuti determinati.

Come vivevi l’essere figlio di Alberto Amato?

Era un’avventura meravigliosa. Quando aveva concerti,  in giro per il mondo lo accompagnavo sempre: tutto ciò che conosco della musica le ho imparate da lui. Pur intraprendendo un’altra strada, andando a Roma per studiare teatro di ricerca, nelle esperienze dei musical ho sempre potuto riutilizzare certe competenze: da West Side Story che facemmo debuttare con la Compagnia dell’Arancia nel 1996 al Fantasma dell’opera, con cui andai in scena successivamente a Londra. Era un modo di interpretare la musica in modo completamente diverso da quello di oggi: la stessa canzone neomelodica attuale ormai non c’entra nulla con quella dell’epoca e, per quello che mi riguarda, nemmeno con Napoli.

Seguendo tuo padre avrai conosciuto tanti personaggi importanti. Il più emozionante?

All’epoca a Napoli c’era un grande mercato per le feste di piazza. Io ricordo che andavo con mio padre in Galleria, dove c’erano gli impresari che facevano diverse offerte a mio padre. Ma quello che non scorderò mai fu un caffè preso con Totò. Avevo cinque anni, mi trovavo di fronte al Principe della risata che scherzava e parlava amabilmente per un’ora e mezza con mio padre, con cui condivideva la passione per il calcio, tanto che giocavano insieme anche in una pionieristica Nazionale di artisti.

Nel suo passato anche il nuoto.

Vero. Era pallanuotista della Rari Nantes, antesignana del famoso Settebello. E poi divenne anche arbitro anni dopo.

Tuo padre era consapevole del ruolo identitario della canzone napoletana nella cultura italiana?

Certo, soprattutto davanti al successo che quella musica ha in tutto il mondo. La canzone napoletana è interpretata dai più grandi tenori internazionali. Ricordo che quando doveva cantare all’estero, nel contratto gli veniva esplicitamente inserita la clausola per cui doveva cantare almeno tre canzoni napoletane. Questa regola è rimasta valida anche successivamente per tanti artisti più recentemente. All’estero vogliono la musica napoletana: ci identifica in tutto il mondo.

Come mai secondo te?

Il dialetto napoletano è musicale come la lingua inglese, ma è anche molto passionale e ha una storia importante. Credo sia qualcosa di innato tra i vicoli di Napoli, tra i venditori della città e la gente che cantava le serenate. Il dialetto napoletano si adatta intrinsecamente alla musica.

Erano anni in cui bastava mezza parola sbagliata e subito interveniva la censura. Ricordi qualche episodio a riguardo?

Non ne ho memoria, ma non penso fosse accaduto nulla di simile, anche perché in generale la canzone napoletana ha sempre usato l’ironia per dire ogni cosa, ma senza mai essere volgare.

Cosa caratterizzava il modo di cantare di tuo padre che ti piacerebbe ritrovare nella musica di oggi?

Era delicato, ma con una voce tenorile. E poi si adattava bene allo stile della canzone napoletana, appunto perché ironico ma non volgare. Era un altro modo di fare musica, non penso sia possibile illudersi che torni quello stile.

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