Lento, pesante, senza idee, la pellicola delude e annoia come uno spot troppo lungo
Come una sirena in spiaggia. Distesa su un telo da mare, scandalosamente in topless. La radio accesa annuncia il segnale orario… si alza in fretta e trascinando gli zoccoli sull’asfalto, sgambetta in una strada vuota. Tutto tra i languori morbosi degli uomini che la incontrano. Questo è l’inizio di «Io la conoscevo bene» (1965) regia di Antonio Pietrangeli, uno dei capolavori del cosiddetto «romanzesco» cinematografico italiano. Adriana Astarelli (interpretata da una appena diciannovenne Stefania Sandrelli) è il primo grande personaggio femminile del nostro cinema.
Nato dalla penna di tre maestri: Ruggero Maccari, Antonio Pietrangeli ed Ettore Scola. Adriana non cerca nulla e non desidera nulla ed è questo a renderla unica: l’assenza di particolarità. Vedendo l’ultima fatica di Sorrentino «Parthenope» il confronto (direi perso in partenza) è inevitabile con l’originale del 1965. Celeste Dalla Porta (al suo vero primo esordio) è la reincarnazione di quella Lolita/Adriana dal sorriso vacuo e dagli sguardi languidi. Sorrentino attinge a piene mani, tanto da chiedere alla sua protagonista di studiare ossessivamente la pellicola di Pietrangeli e l’espressività della Sandrelli. Senza tregua la cinepresa indugia sul suo corpo con lo sguardo maschile del regista e lei, Parthenope, risponde a tono. Dritta in macchina, sempre rivolta allo spettatore. Sorrentino dichiara l’omaggio e consegna alla stessa Sandrelli (è lei Parthenope disincantata e ormai anziana) l’arduo compito di un cammeo finale, ahimè faticosamente incollato ad una narrazione farraginosa. Oltre due ore di film – tediose e opprimenti – che stimolano un’unica emozione: la «voglia matta» di abbandonare la sala per dedicarsi alla visione più proficua di capolavori come quello di Pietrangeli o di Antonioni, Bertolucci o dei maestri della Nouvelle Vague.
E non elenco questi nomi a caso perché, scena per scena, Parthenope è un compendio di fenomenologia delle immagini (con citazioni più o meno dichiarate o per meglio dire «saccheggi»). Tutto questo mentre scorrono le scene di una Napoli talmente evanescente da suscitare l’indignazione del critico americano Peter Bradshaw che, su «The Guardian», riassume lapidariamente Parthenope: «Un lungo spot per un’acqua di colonia troppo costosa». E come non essere d’accordo con lui, quando chiama Sorrentino un’autoparodia e il suo un esercizio di stile fine a se stesso? Lo spettatore si trascina in una «non storia», assistendo inerme a un circo felliniano di improbabili seduttori, camorristi star, vescovi cialtroni e di dive velate come Norma Desmond in «Sunset Boulevard». Sulle note del refrain di Cocciante «Era già tutto previsto» scorrono tableaux vivants in cui staziona un cast stellare: Gary Oldman, Silvio Orlando, Luisa Ranieri, Isabella Ferrari. Era già tutto previsto… o meglio già visto. Perché anche questa volta resta la questione che ricorre in quasi tutti i suoi film: comprendere l’impatto narrativo di comprimari così prestigiosi che faticosamente provano a reggere il ritmo uggioso dei suoi feuilleton.
«Parthenope» aspira ad essere un romanzo di formazione. Una ragazza bellissima con la risposta pronta che attraversa tre decenni della storia d’Italia: il boom economico, il femminismo e la ribellione studentesca. Ma tutto stenta a decollare perché Sorrentino resta in superficie, non verticalizza mai il racconto; lo rende inspiegabilmente senza tempo e luogo e i personaggi galleggiano indolenti come sulla schiuma del mare. Cosi come non funziona l’allegoria: Napoli incarnata nel corpo di una donna desiderata e mai veramente amata. Tutto si riduce a un’invettiva contro la città malapartesca e misogina in cui convivono folklore, violenza e tifo da stadio. E la domanda sorge spontanea: «Ma come è possibile che un regista e sceneggiatore così blasonato abbia un immaginario talmente modesto a corredo?». E la risposta libera e disincantata arriva da Oltreoceano, lì dove in questi anni il mito di Sorrentino, possibile erede di Fellini, si è sedimentato. A non fare sconti è la rivista USA «IndieWire» (voce illustre del cinema indipendente) che scrive: «“Parthenope” è solo un lungo film realizzato da un uomo di mezza età che quasi impazzisce cercando di immaginare come sarebbe la vita come una donna incredibilmente sexy». E ora come la mettiamo con il pensiero unico della critica italiano che tutto perdona al Sorrentino nazionale?