Abbandonare una vita materiale per intraprenderne una completamente anarchica, all’insegna dell’avventura, della natura e della libertà, è un sogno tanto comune e diffuso quanto frustrato dalle leggi della nostra società, la quale più che di ribelli necessita di soldati vocati alla servitù. Chi avrebbe, poi, realmente il coraggio di farlo? Quante paure accompagnerebbero una scelta simile? Noi che ormai alla natura selvaggia preferiamo la “wildness” fighetta dei campeggi tirati a lucido.
Durante la lettura di Lo sport avventuroso (Passaggio al Bosco, 2024) di Massimo Raffanti, – sorta di autobiografia e zibaldone della sua vita di “pioniere delle discipline del coraggio” – riaffioravano nitide alla mente vecchie suggestioni che da tempo avevamo lasciato in qualche anfratto della memoria. Tipo i grandi romanzi di Jack London come Zanna bianca e Il richiamo della foresta – a dirla tutta tra i peggiori di quel vecchio ubriacone della California; oppure Into the Wild di Sean Pean, visto al cinema un paio di volte, con Eddie Vedder che in uno dei pezzi della colonna sonora canta di non avere paura quando saremo soli (Long Nights) e l’attore protagonista davanti all’immensità dell’Alaska, poco prima di soccombervi per un incosciente anelito di assoluto; da ultimo, le immagini di quando da bambini ci si arrampicava sull’albero a primavera per ingozzarsi di ciliegie. D’accordo, se di pericoloso l’inerpicarsi su una pianta situata accanto alla scuola elementare – per poi balzare a terra con encomiabile sprezzo del pericolo terminato il pasto – non aveva proprio nulla, quantomeno lo spirito romantico dell’impresa era il medesimo, perché no, delle discipline di cui Raffanti è oggi ritenuto gran conoscitore. Egli, infatti, dopo una carriera di lungo corso nel giornalismo, fin dagli anni Ottanta ha praticato paracadutismo sportivo e alpinismo, oltreché aver introdotto in Italia pratiche quali il volo in parapendio e la discesa fluviale in kayak, fino alla grande passione del volo in mongolfiera. Da tempo impegnato a divulgare la storia di Vincenzo Lunardi, leggendario precursore settecentesco dell’aerostatica mondiale e come lui originario di Lucca – imperdibile l’intermezzo presente nel libro -, in Lo sport avventuroso l’autore ha fatto confluire, per certi versi, ognuno di questi tasselli in un puzzle ben più grande che è la sua vita. Verrebbe da dire inimitabile, se l’encomio non lo facesse arrossire. Eppure, questo memoir, che dalla prima all’ultima riga non smette mai di riguardare anche il più sedentario e pigro degli esseri umani, è innanzitutto un atto di coraggio. Prima verso sé stessi, poi, eventualmente, nei confronti del mondo. Prendiamo il paracadutismo, ad esempio. Chi sono questi pazzi che senza nulla in cambio decidono di tuffarsi nel vuoto rischiando di rompersi l’osso del collo? E perché mai si dovrebbe sentire la necessità di farlo?
Rispondere non è semplicissimo. Probabilmente sono avventurieri, coraggiosi, esibizionisti, uomini e donne come ce ne sono tanti in ogni ambito. Con un elemento in comune, però: «l’esigenza di un confronto con la grande natura», spinti dal «sottile piacere d’ammirare nuove prospettive del mondo, la più grande dimensione d’orizzonte possibile e, non ultimo, il gusto d’assaporare nuovi ritmi di vita». Per uscire da una certa idea di “normalità”, dunque, e riconciliarsi con un disegno che trascenda l’umana condizione. Lo sport inteso quale «vero e proprio culto di forza interiore», «certamente direzionato ad una ricerca d’identità oltre che di dignità; un traguardo spontaneo e di rapporto con sé stessi. Per una vita che ognuno ha il diritto di scegliersi». Come del resto è capitato a Raffanti, che fin da piccino e, in maniera più consapevole, da adolescente lo si vedeva correre con il naso all’insù al campo di Tassignano, vicino Lucca, per assistere ai vari decolli, atterraggi ed esercitazioni. Fino a quando quella che era solo una passione, peraltro guardata di traverso dai genitori, non diventerà metodo e disciplina in una vera scuola. E la fantasia del volo una realtà concreta a seicento metri di quota. Tanta volontà, tantissima determinazione – forse il miglior lascito di lezioni immaginiamo bellissime – che da qui in avanti non abbandoneranno più Raffanti e saranno alla base di ogni sua attività futura.
Entusiasmante il capitolo dedicato alla mongolfiera, l’avventura più leggera dell’aria, come viene definita. Sogno confesso di chi il cuore non s’è deciso ancora a venderlo – per “guidarne” qualche esemplare, s’intende -, quei palloni di pura gioia decollano sempre all’alba «perché è il momento del risveglio del giorno, dei pensieri positivi di ognuno e di una natura che, nei colori e nelle ovattate atmosfere del volo può suggerirti vibrazioni solo intuite ma mai sapientemente razionalizzate». Un’emozione cui fa da contraltare l’aggressività delle correnti agitate dei fiumi di montagna da solcare, dove l’entusiasmo delle discese ripide «si miscela alla paura tramite il brivido di mille cavalcate e altrettante forze liquide: in un amalgama psicologico speciale e fascinoso». Quanto del sublime di William Tuner – il grande pittore inglese delle tempeste di mare e dei vortici – ci sia in un’esperienza del genere è affare che pertiene ai soli romantici. Categoria di uomini non comuni, in cui rientra certamente lo sportivo francese citato dall’autore Guy Ogez, esperto di speciali imbarcazioni come il kayak-mare. Usata dagli esquimesi per la caccia alla balena, questa è una canoa leggerissima, buona tanto per il fiume che per l’alto mare aperto, capace di «rovesciarsi decine di volte» e tornare sempre a galla «con un colpo subacqueo di pagaia detto “eskimo”». Impiegata da Raffanti proprio per le sue caratteristiche in occasione di una memorabile escursione all’Elba, di cui tuttavia non possiamo riferire l’esperienza “melvilliana” per rispetto che dobbiamo al lettore: basti sapere che ogni cosa accade per essere raccontata, magari davanti a dell’ottimo vino gustato al tramonto.
Dunque, l’avventura sportiva, ci pare di aver capito arrivati fin qui, è soprattutto un’elevazione dello spirito in grado di formare il carattere, figlio più che mai delle nostre decisioni, delle scelte che ogni giorno prendiamo in un senso o nell’altro – e a tal proposito, la postfazione di Matteo Colnago dice parole definitive. La passione della montagna – cui Raffanti dedica la parte finale del libro – da questa prospettiva non può consistere in altro che in una fiera scoperta dell’Io profondo. Raggiunto per mezzo di sentieri, arrampicate, vedute, luci e silenzi. Tra i materiali contenuti in appendice al volume, insieme a una intervista all’alpinista Reinhold Messner, di grande interesse è il contributo – pubblicato nel febbraio 1936 su “Rivista mensile del CAI” con il titolo “Meditazioni delle vette” – di uno studioso che di spirito se ne intendeva, l’esoterico filosofo Julius Evola (1898-1974), secondo cui «la spiritualità della montagna corrisponde a ciò che, nel senso più alto, severo e universale, può chiamarsi tradizione». Cioè a dire una storia impastata con il mito, fatta di simboli e analogie che le vette più alte hanno da sempre rappresentato agli occhi dell’uomo antico. Il solo ad aver trasformato l’esperienza della montagna, scalandola con eroico slancio, «in un modo d’essere». Il solo modello d’uomo, infine, cui richiamarsi potrebbe voler dire salvarsi dalle catene degli obblighi e dalla monotonia del grigiore quotidiano.