«Chi fa un mestiere come il mio, l’artista, anche se non vuole porselo sul piano etico e della responsabilità, vive in un sentimento che per forza di cose è religioso» cosi scriveva Federico Fellini. Certo che l’obiettivo del cinema fosse rendere visibile ciò che è invisibile: il mistero, il soprannaturale, il trascendente. E a pensarci bene, le analogie tra teologia e arte cinematografica sono molte: entrambe riconducibili ad una struttura simbolica ed analogica. Fin dalle origini, il cinema ha dedicato alla religione pellicole ispirate ai valori cristiani tanto da gettare le fondamenta per un vero e proprio genere: quello del cinema agiografico. Nel 1911, la casa di produzione romana Cines lanciò sugli schermi il film «Il poverello di Assisi», per la regia di Enrico Guazzoni. Si tratta di uno dei primi lungometraggi italiani a tema religioso. In Italia le proiezioni a soggetto cristologico, biblico e agiografico erano state cardine dell’inarrestabile successo dell’invenzione dei Lumière. La vera novità dell’evento, ideato da Cines, non riguardava la rappresentazione cinematografica della vita di un santo, quanto i significati che si vollero associare a quest’opera. Il soggetto sulla figura di Francesco, fu infatti pensato come prodotto di punta della Cines in occasione del concorso cinematografico indetto per celebrare il cinquantenario dell’Unità d’Italia durante l’Esposizione internazionale dell’industria e del lavoro allestita a Torino nel 1918.
E dai primi del ‘900 in poi, è stato un proliferare di pellicole dedicate ai Santi. Siamo alle origini di un fenomeno più generale, quello del film storico, che attinse a piene mani anche all’agiografia cristiana, dunque, alla figura dei Santi, ricalibrandola sulla nuova sintassi narrativa del cinema. Considerato uno dei cento film italiani da salvare è il «Cielo sulla palude» di Augusto Genina (1949) ispirato alla via e le opere di Maria Goretti venerata come santa e martire dalla Chiesa cattolica. La pellicola, vincitrice del Nastro d’Argento per il miglior regista nel 1950, è da ascrivere al filone del Neorealismo e ha il pregio di rendere una fedele descrizione storica del periodo in cui è ambientata. Da lì in poi, fu un proliferare di opere ispirate alle vite dei Santi, tra culto e leggenda popolare. Spesso immortalando un’epifania, una manifestazione del sacro che colpisce, come San Paolo sulla via di Damasco, i personaggi.
È il caso del capolavoro di Roberto Rossellini «Francesco, Giullare di Dio» (1950) con Aldo Fabrizi e Nazario Gerardi. Qui, il maestro del Neorealismo ripercorre episodi importanti della sua vita tratti dai «Fioretti di San Francesco». Sono circa una ventina, nella storia del cinema italiano, i film dedicati al Poverello di Assisi. Probabilmente ciò che ha attratto i cineasti è stata la santità come anticonformismo, ribellione o follia. Francesco è un laico più che un religioso. Laica è anche la visione di Liliana Cavani (1966) nel suo «Francesco d’Assisi» affidato a Lou Castel. E poi, nel 1972 l’estetismo fastoso di Franco Zeffirelli rende omaggio alla poesia naturalistica nella raffigurazione di un Francesco incantato dal creato e innamorato di Dio. Un altro Santo amato dai registi è poi san Filippo Neri, «il secondo Apostolo di Roma». E come non pensare alla bella opera di Luigi Magni (1983) «State buoni se potete» con Johnny Dorelli nei panni di san Filippo Neri e Philippe Leroy in quelli di sant’Ignazio di Loyola. La colonna sonora è di Angelo Branduardi (che nella pellicola interpreta Spiridione), premiata con il David di Donatello. Ed infine, in questo breve excursus non si può non citare «La leggenda del Santo Bevitore» di Ermanno Olmi (1988) tratto dal capolavoro di Philip Roth. Un Olmi in stato di grazia che confezionò un film tra i suoi più riusciti, con una produzione internazionale e che gli valse il Leone d’oro a Venezia.