Franco Basaglia, lo psichiatra che rivoluzionò la cura della follia in Italia

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Cento anni fa nasceva a Venezia Franco Basaglia. Psichiatra rivoluzionario, è l’uomo che ha legato il suo nome alla discussa riforma del sistema degli ospedali psichiatrici in Italia, la Legge 180\1978. Il suo contributo è in realtà controverso, perché egli stesso ritenne la legge non soddisfacente.

Nel 1978 l’Italia aveva un sistema di cura psichiatrica ancora regolato da una legge d’epoca positivista, quella del 1904. Accanto a istituti di cura umani e all’avanguardia esistevano vere e proprie strutture-lager, nelle quali il malato (o presunto tale) era letteralmente sepolto vivo, lasciato alla mercé di un direttore-dominus dotato del diritto assoluto di giudicarlo guarito o meno e perfino di poter decidere se costui aveva il diritto di ricevere visite o poter comunicare con l’esterno. Una situazione che esponeva chi finiva in manicomio a possibili abusi d’ogni sorta. Era una visione positivista, che aveva mantenuto però l’impostazione moralista di stampo calvinista sostituendo Dio con la “scienza”: il malato di mente in qualche misura era considerato “colpevole” della propria condizione e l’istituto, nonostante tutte le buone premesse, finiva per diventare un luogo di punizione e non di cura. Naturalmente non era sempre e comunque così, come fin troppo spesso viene mostrato nei film “denuncia” serviti a puntellare una certa visione. Tuttavia la prepotenza del potere era in agguato e la legge le dava carta bianca.

Basaglia, influenzato dai suoi studi e interessi filosofici, soprattutto nell’esistenzialismo e nella fenomenologia, sviluppò una consapevolezza sempre maggiore riguardo all’inadeguatezza dei modelli tradizionali nel trattamento dei malati mentali, specialmente dopo aver vissuto un’esperienza diretta nell’ambiente ospedaliero psichiatrico. Egli decise che le istituzioni psichiatriche erano spesso luoghi di emarginazione anziché di cura, annullando la dignità del malato come persona.

Convinto che i malati mentali necessitino non solo di cure mediche, ma anche di un sostegno umano, Basaglia unì tendenze curative già in atto da molti decenni – come l’esistenza di laboratori interni agli ospedali psichiatrici – a nuove teorie sia curative, che prevedevano l’importanza di fornire risposte pratiche alle loro esigenze, come denaro, una famiglia e soddisfazione dei bisogni fondamentali, ma anche filosofico-politiche, come quelle dell’antipsichiatria, che giungevano a negare l’esistenza stessa della malattia di mente.

La sua preoccupazione principale come psicopatologo divenne quindi proteggere la persona del malato dalla coercizione dell’istituzione psichiatrica. Basaglia riteneva che lo psichiatra dovesse ascoltare e comprendere il paziente senza preconcetti. Tuttavia alla base di queste teorie c’erano gli esponenti del decostruzionismo e del postmodernismo, come Foucault, Sartre e Szász, le cui filosofie miravano essenzialmente alla demolizione o perfino alla negazione della realtà materiale. Dopo l’orgia di razionalismo meccanicista sette-ottocentesca, il pendolo del pensiero occidentale aveva raggiunto l’altra estremità, arrivando praticamente all’abolizione ideologica della realtà fisica. E con essa anche della distinzione fra sanità e malattia.

Basaglia propose una serie di misure per implementare le sue idee, tra cui la pressione sulle istituzioni per adottare nuovi approcci, la sensibilizzazione degli operatori sanitari sul bisogno di cambiamento, l’utilizzo di farmaci per modificare i rapporti tra istituzione e paziente, il mantenimento dei legami con il mondo esterno e l’importanza simbolica dell’apertura delle porte. Tuttavia, Basaglia puntò molto sulla deistituzionalizzazione e la lotta al potere medico, quasi che eliminare la definizione di “malattia” bastasse a eliminare anche materialmente il disagio di mente.

Ma quando la legge 180, redatta da Bruno Orsini e con il contributo fondamentale di Giulio Andreotti, entrò in vigore, lasciò la responsabilità di decidere cosa fare per le cure psichiatriche alle regioni. Con l’“efficienza” che contraddistingue questa istituzione della Repubblica, si aprì il capitolo della progressiva chiusura dei manicomi, concluso 20 anni dopo, nel 1997. Un atto con quale non scomparvero anche le patologie di mente, con buona pace di Foucault e dei suoi epigoni. Esse invece finirono in gran parte scaricate sulle famiglie (spesso con risultati tragici) o finirono per affollare le fila dei senzatetto: circa centomila ospiti dei manicomi rimasero così in un limbo, finendo spesso cenciosi nelle strade, pericolosi per se stessi e per gli altri, angariati non più da un “sistema” ma dalla crudeltà umana che si approfitta dei deboli.

Le buone intenzioni di Basaglia hanno quindi lastricato la strada per una non-soluzione del problema (ammesso e non concesso che esistano realmente “soluzioni”). Quando verrà fatto il bilancio della seconda metà del XX secolo e soprattutto delle conseguenze di postmodernismo e decostruzionismo, non a caso base ideologica del wokeismo, occorrerà mettere nel conto anche questo.

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