Civiltà del Lavoro, un’alternativa ideale a liberismo e marxismo

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Carlo Dell'Orto, CC BY-SA 4.0 creativecommons.org via Wikimedia Commons

“Lavoro” nella società attuale significa individualismo sfrenato, principio di concorrenza e mezzo materiale. C’è stato un momento in cui il lavoro ha costituito invece il fine etico di una nazione, il dovere sociale dell’individuo e il collante simbolico tra persona e Stato. Si è trattato di un punto della storia pregno di contributi ideologici ottocenteschi, di spunti rivoluzionari e anti-borghesi e di profili economico-politici tesi all’organica collaborazione tra classi sociali non più ripartite o sommate, ma intersoggettivamente parte del comune organismo e perciò dotate dello stesso potere decisionale e del medesimo slancio in potenza del benessere collettivo.

Questo il contenuto del volume Civiltà del Lavoro (Altaforte Edizioni, in commercio dal 7 novembre 2020, 156 pagine), che in sette contributi ha voluto raccontare la Carta del Lavoro del 1927. Come nasce, su quali basi ideologiche si innesta, come giuridicamente e dottrinalmente si declina, perché risulta attuale e quali i sono motivi comparatistici che vi presiedono: la Carta del Lavoro si muove sulla certezza olistica di farsi alternativa alle derive tanto liberiste quanto marxiste e di collocarsi oltre l’orizzonte meramente economico in una soglia del discorso che vede il lavoro come espressione dell’uomo integrale. Rivedere il ruolo della contrattazione collettiva, magari cercandolo a ritroso e scandagliare la definizione di lavoro come fattore di civiltà, è il compito che si propone l’opera, riannodando il filo di anni ghettizzati a processo nonostante l’avanguardismo corporativo di giustizia sociale che si portavano dietro.

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