Così vivi e lucenti in questo buio senza maestri

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Obiettivo di un rinascimento delle arti è restituire piena legittimità agli artisti ad uscire dalla spirale di disordine ad arte – e di provocazione – che ha caratterizzato lo spirito delle avanguardie quasi ininterrottamente fino al nono decennio del secolo scorso. Come accade sempre allo scadere di un secolo, l’avvertimento del nuovo, che può anche essere un ritorno alla tradizione (rinascimento neo-classico), inizia a dare segnali. E questo, come ripeto da tempo, è avvenuto nel tempio delle avanguardie per diritto e per regime – la Biennale di Venezia, nel 1980, con la mostra di Balthus. Da allora gli artisti timidamente sono usciti dai loro rifugi e hanno ricominciato a disegnare, a dipingere, a scolpire. Non era facile prima, ma oggi la legittimazione è totale se a Firenze, nei principali musei, a fianco di Michelangelo, si possono vedere i grandi dipinti che raccontano l’umanità sofferente delle donne, di Jenny Saville e, prima di lei, Bacon, Freud, Gino de Dominicis. In piena guerriglia si affermò, per essere riscoperto oggi, Domenico Gnoli.

La mostra “I profeti inascoltati del Novecento”, proposta ai Saloni delle Feste di Palazzo Imperiale a Genova, ha collegato pensatori liberi ed eretici (e spesso ascoltati, conservatori di valori e non di costumi, e di integrità morale che costituisce l’unica forma possibile di pensiero) a disegnatori che ne hanno eseguito il volto, le ansie e le riflessioni e ad altri scrittori che ne hanno interpretato lo spirito.

Da Guareschi a Prezzolini, da Ennio Flaiano alla Fallaci. Un Olimpo siffatto, e spesso con gli stessi protagonisti, aveva illustrato, impavido, Tullio Pericoli. Oggi tocca in larga parte a Dionisio di Francescantonio con il disegno e ad altri, come Stenio Solinas, con le parole. Apparentemente nata per rimanere nell’ombra, in una fase di ricerca, la rassegna “I profeti inascoltati” ha favorito l’incontro tra quattro artisti genovesi che nel recente passato avevano preso parte alla mostra “Mai perdute forme del mondo. La persistenza del figurativo in alcune esperienze contemporanee” in Palazzo Ducale. Visioni di vita diverse, modi di pensare anche molto lontani, che hanno in comune, oltre alla pratica del disegno e della pittura, una vera curiosità culturale. L’arte pretende quella libertà di espressione che personaggi scomodi come Pasolini, Filippo Tommaso Marinetti, Gabriele d’Annunzio, hanno coraggiosamente e diversamente testimoniato, anche divisi dalle violentissime vicende storiche del Novecento. Il possibile punto d’incontro è la verità delle parole, che consente di superare gli schemi ideologici propri di un tempo che è finito, mentre la loro vita è qui. Una condizione che li ha fatti uscire da quel pensiero rigido che ha travolto generazioni schiave di pregiudizi. Tutto questo conduce i promotori della iniziativa della Domus Cultura, associazione nata per difendere i valori tradizionali, nella vita come nell’arte, a una considerazione: dove ha portato quella totale libertà nella quale ormai da quasi due secoli si muovono gli artisti? Scomparso il dialogo e il confronto con la committenza, assieme alla committenza stessa che fu alla base di tutte le grandi opere d’arte che ammiriamo, l’unico punto di riferimento di pittori, scultori è rimasto il mercato. Un’entità amorfa, motivata per sua natura solo dal profitto, che spinge gli artisti a farsi riconoscere talvolta rinnegando il loro talento (qualora lo posseggano) e a muoversi in una direzione prevalente: quella della provocazione perpetua e della dissacrazione ad oltranza: due vicoli ciechi che, tra l’altro, hanno fatto il loro tempo, dal momento che nulla può ancora stupire e tutto quanto era possibile dissacrare è già stato dissacrato.
Non posso che guardare con favore, quindi, a questi ritratti così vivi ed espressivi, lucenti nel buio di un’epoca senza maestri.

5 Commenti

  1. In questo quadro, dice «Mario Draghi agli studenti: “Non abbiate paura del futuro”». Ma come si fa a non avere paura del futuro, quando il presente terrorizza?
    C’è sotto silenzio, nonostante tutto quello che a raffica gli avvocati della famiglia portano alla luce, il “Caso David Rossi”, fino a far dire alla figlia Caterina Orlandi, «Viviamo in un sistema malato alla radice».
    In effetti, i sospetti che David Rossi fosse stato buttato giù dalla finestra al solo scopo di toglierlo di mezzo c’erano stati fin dal primo momento, nonostante, chi indagava in divisa e in toga, dicesse cose diverse. Adesso ci sono le perizie. Adesso ci sono le prove. Adesso è su chi, allora, gestiva il Monte di Paschi di Siena che si deve indagare. Senza trascurare il motivo del depistaggio abbondantemente praticato. Perché è lì che l’assassino o gli assassini hanno portato a termine la loro missione. E il motivo non poteva che essere uno e uno solo: chiudergli la bocca. Poiché chiudere il caso in modo indolore, per tutti i diretti e gli indiretti protagonisti o complici o mandanti, era a quel punto diventato un imperativo categorico e il conseguenziale obbligo di ‘casta’. Il velo sulla rossa Siena va sollevato, una volta per tutte. In nome del Popolo italiano. – Con la speranza che il lungo e molto inquietante silenzio del Quirinale finalmente cessi. Togliendo ossigeno a un sistema che da tempo si è arroccato fuori il perimetro della democrazia.

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