Il primo obbiettivo che dovremmo porci come Paese in merito ai beni culturali sarebbe un sano bagno di realismo. Una retorica roboante sulla cultura impedisce di capire quale sia il valore di questo settore, quali le potenzialità, quali i modi per sostenerne i costi e migliorarne la fruibilità. Ripeterci continuamente che siamo il paese più bello del mondo, che più di metà dei siti riconosciuti patrimonio mondiale dall’Unesco sono in Italia (cosa non vera), che i beni culturali sono il nostro petrolio, non serve a nulla, se non a mascherare l’incuranza con cui trattiamo il paesaggio e il disinteresse con cui guardiamo al nostro patrimonio. Ha ragione Vittorio Sgarbi quando fa notare che l’Italia, devastata dalle speculazioni urbanistiche della modernità, è oggi mediamente orrenda e mal tenuta se si eccettuano i lacerti di un glorioso passato che resistono nei centri storici e in poche altre zone, minacciati sempre dalla stupidità e dal cattivo gusto di noi cittadini e dei nostri rappresentanti politici. E di fatto, a tanta retorica fanno da contraltare dati incontrovertibili: considerando il complesso della spesa pubblica per il settore della cultura – ci dice il rapporto Federculture 2021 – e confrontandolo a livello europeo il nostro Paese, come negli anni precedenti, resta al di sotto della media continentale e tra quelli a più basso impegno di spesa; tenendo presente che i dati fanno riferimento al 2019, l’Italia infatti è tra gli ultimi cinque paesi per la percentuale della spesa pubblica per la cultura sul PIL e al penultimo posto per la percentuale di spesa in cultura rispetto alla spesa totale. E questa discrasia tra intenzioni e realizzazioni ha reso ancor più drammatico il contesto del settore cultura nel mentre della pandemia; con una serie di paradossi di non facile risoluzione come considerare i musei servizi essenziali per la comunità e poi chiuderli a forza nonostante non fossero luoghi di diffusione del virus, oppure ancora oggi prevedere nei teatri, a differenza che negli aerei e nei treni, l’obbligo di green pass, di mascherina e perfino di distanziamento, un triplice impedimento che fa passare la voglia di assistere a uno spettacolo anche ai più motivati. In generale, il Covid ha evidenziato le difficoltà e le controversie del comparto culturale in cui comunque il pubblico conta più del privato: e di fatto il sistema pubblico ha retto, protetto da strumenti di recovery ampi, così ampi che alcune istituzioni pubbliche o fondazioni con soci pubblici hanno chiuso bilanci positivi come mai era accaduto (facile da capire: fondi rimasti intonsi, e poche spese di produzione in ragione dei vari lockdown), e lo stesso è accaduto ad alcune aziende private che hanno ricevuto finanziamenti di solidarietà importanti, talvolta perfino esosi e fuori luogo, mentre altri comparti, pensiamo ai lavoratori autonomi (per esempio quelli dello spettacolo dal vivo) sono stati dimenticati, causando disagi e tensioni sociali. Immaginando che nei prossimi mesi la situazione andrà normalizzandosi, vale la pena pensare al futuro della cultura in Italia. Premessa: il sostegno pubblico è necessario perché alcuni settori (musei storici e teatri lirici) che rappresentano l’identità della nostra Nazione non riescono a produrre ricavi tali da autosostenersi, e sarebbe sbagliato stressarli per aumentarne senza senso le performance a scapito della qualità. Ovviamente vanno mantenuti gli obbiettivi di efficientamento e di sostenibilità se non economica almeno etica, evitando sprechi e disservizi che purtroppo sono ancora all’ordine del giorno. Il potere cavilloso della burocrazia nei beni culturali è però troppo e antistorico, la conservazione è una priorità, certo, ma non deve essere slegata dalla valorizzazione che a sua volta non può prescindere dalla conservazione. Ci sono poi settori dove l’intervento pubblico è sbagliato e produce inefficienza: il cinema che è a tutti gli effetti un’industria seppur culturale in altre nazione si sostiene in modo autonomo, mentre per decenni in Italia è stato sovvenzionato in modo diretto costringendo gli operatori a dipendere dal potere politico e in questo modo conformandolo ideologicamente, e solo con l’introduzione di sistemi di defiscalizzazioni, il tax credit, si è avuta una vera rinascita anche dal punto di vista produttivo liberando energie e costringendo il settore a confrontarsi, non più solo con il partito di turno, bensì con il pubblico pagante. Il tema delle defiscalizzazioni resta dunque centrale e strategico: da un lato infatti induce il privato a collaborare al sostegno della cultura, dall’altro impone allo Stato di cedere al cittadino il potere di indirizzo economico, poiché non è più lo Stato ma il cittadino a decidere chi e quanto finanziare, anticipando un contributo che gli verrà poi restituito interamente. Introdotta nel 2014, l’agevolazione fiscale del 65%, il cosiddetto Art Bonus, ha generato in 7 anni quasi 600 milioni di euro di donazioni da parte di singoli privati o imprese. Una cifra importante, ma non determinante: allargare le defiscalizzazioni al 100% sulle donazioni, e prevederle anche per i consumi culturali (libri, dischi, mostre…), consentirebbe davvero di impostare una sorta di federalismo e liberalismo culturale per cui il cittadino torni ad essere consapevole del patrimonio culturale e orgoglioso di partecipare al suo mantenimento.