Economia del mare per l’interesse nazionale

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Spesso sono gli elementi fisici che identificano l’interesse nazionale nella sua essenzialità: i confini, specialmente quelli più imperscrutabili, come i ghiacciai ed il mare, le politiche in contesti indefiniti come lo spazio. Ciò che non è nella quotidianità delle agende politiche spesso si dimentica, si defila e si nasconde dall’attenzione dell’opinione pubblica e così i grandi interessi, proprio nel silenzio, in quegli ambiti e contesti dispiegano le loro strategie economiche ed espansionistiche.

La Blue Economy, l’economia del mare a livello europeo si inserisce nella Blue Growth che coincide con la crescita intelligente e pienamente sostenibile con un evidente effetto moltiplicatore nei territori nei quali agisce, generando occupazione ed innovazione. A livello nazionale, però, l’economia del mare sembra avere delle potenzialità finora non perfettamente comprese e consapevolmente inserite nelle agende governative, nelle cui pagine il “sistema mare” appare sottostimato, più un sistema residuale del turismo, che spesso si autoalimenta e cresce grazie agli unici sforzi dei privati. Un’economia del mare che finora ha visto un interesse nazionale soffrire il dominio di altre potenze straniere, proprio su quello che una volta era il Mare Nostrum, come ben ci ricorda Marco Valle nel suo ultimo libro.

Sulle Zone Economiche Esclusive (ZEE), sulle Zone Economiche Speciale (ZES), l’Italia deve giocare un ruolo autorevole e mai subalterno, senza rincorrere l’iniziativa di altre nazioni mediterranee o, peggio, extra mediterranee. Sul mare all’Italia spetta un ruolo di avanguardia che la possa liberare dalla sudditanza continentale imposta dalla Germania e dalla Francia, utilizzando quella centralità del nostro Meridione, ben evidente se si gira la cartina geografica sull’asse Sud/Nord, agganciando, a nord, i traffici internazionali tramite la Pianura Padana e quindi il Corridoio N°5 Lisbona/Kiev.

Un protagonismo incisivo e fattuale nel Mediterraneo, in grado di avvicinare la costa occidentale ed orientale della nostra Nazione – come ha ben detto la Presidente del Consiglio Meloni nel suo discorso di insediamento – avvicinerà il Sud al Nord e viceversa, ricostruendo una vera identità nazionale. Al riguardo, fa ben sperare l’istituzione per le Politiche del Mare affidato ad un siciliano come Nello Musumeci.

I dati parlano chiaro: il valore aggiunto dell’intera economia del mare italiana è di 47,5 MLD pari al 3% del PIL, con quasi 900.000 occupati, pari al 3,5% del totale. In termini di valore aggiunto dei comparti dell’economia del mare primeggiano i “Servizi di alloggio e ristorazione” con 14,7 MLD, seguiti dalla “Movimentazione merci e passeggeri via mare” e “Ricerca, regolamentazione e tutela ambientale”, ambedue con 8,3 MLD. Segue la “Filiera della cantieristica” con 7,5 MLD e, più staccati, “Filiera ittica”, “Attività sportive e ricreative” e “Industria delle estrazione marine”.

Da un punto di vista territoriale, le prime cinque regioni per incidenza delle imprese dell’economia del mare sul totale imprese restituiscono un quadro chiaramente dovuto alla morfologia della nostra penisola, indicando la Liguria come prima regione, seguite dalla Sardegna, dal Lazio, dalla Sicilia e dalla Calabria. Guardando alle province, la prima conferma il dato ligure con La Spezia. Le altre quattro province, in ordine all’incidenza delle imprese dell’economia del mare sul totale imprese, sono invece città che non appartengono alle prime cinque regioni, come Rimini, Livorno, Trieste e Venezia. L’ulteriore dato delle “capitali” settoriali indica Rovigo come capitale della filiera ittica, La Spezia per la cantieristica, Venezia per la movimentazione merci e passeggeri, Rimini per la filiera del turismo. Queste due ultime serie di dati che riguardano province territorialmente diverse rispetto alle regioni, testimoniano la diffusione geografica dell’economia del mare in Italia, Se, però, da una parte caratterizzano una certa capillarità insita nell’essere penisola, dall’altra evidenziano che, quando primeggia la provincia ma non la regione, ciò può essere dovuto a una certa debolezza delle imprese portuali o costiere nell’estendersi verso l’entroterra facendo sistema, così da poter strutturare una filiera e un indotto tali da essere riconoscibili e averne nel contempo consapevolezza. Una maggiore incisività consentirebbe a questi distretti di fatto, pur non formalmente istituiti, politiche ed azioni in grado di sostenerli, svilupparli ed identificarli. Questo riconoscimento della loro essenza marittima qualificherebbe una significa quota parte dell’interesse nazionale, magari finalizzando le azioni del nuovo Ministero delle Politiche del Mare.

Particolarmente importanti sono i dati soggettivi dell’utenza interessata dal settore, i quali indicano che le imprese giovanili dell’economia del mare sono il 9,3% sul totale imprese del settore e che queste imprese si collocano principalmente al Sud. Le imprese femminili sono il 21,5% sul totale e anche queste si collocano prevalentemente al Sud. Questi ultimi dati ci pongono davanti a un triplice salto dello stereotipo, nel senso che se l’economia del mare deve maggiormente entrare nell’agenda economica, politica e culturale della Nazione, questo può avvenire solo grazie a un’apertura di mentalità necessaria per aprire nuove aziende e, perché no, nuovi settori e comparti e per riconvertirne di vecchi come ad esempio la pesca: se ciò deve accadere, quale migliore possibilità di affidarlo a soggetti liberi da vecchi stereotipi e motivati come i giovani e le donne del Sud?

Proprio questa spinta ad innovare agendo su ciò che abbiamo di più antico come il mare deve imporsi come una sfida suggestiva, ma anche utile ed economicamente redditizia, in grado di contribuire ad invertire un dato che vede l’export (1,3% dei flussi commerciali nazionali) inferiore all’import (1,6%) con un saldo commerciale negativo di 225 mln di euro.

Una sfida, dunque, in favore di un salto di qualità delle politiche marittime che possono vedere unite le aree geografiche più forti, in termini di economia del mare, con quelle che risentono di potenzialità mai sviluppate appieno e ancora minoritarie rispetto ad altre attività economicamente rilevanti.

Passa da qui, ancora una volta, l’unità e l’interesse nazionali di un mare che ci ha visto un tempo avanguardia e che può qualificare l’Italia come uno dei centri economicamente più vivi al mondo.

Una tale sfida non è evidentemente solo economica, ma è anche culturale ed antropologica. Si tratta infatti di agire sulle mentalità e sulle consapevolezze a livello di governance, così come a livello della libera iniziativa economica di base. In tal senso molto possono fare le politiche attive del lavoro, le quali come prerequisito della ricerca attiva del lavoro e della proposta delle proprie competenze e del proprio curriculum devono partire dall’analisi del proprio contesto economico e territoriale. Ciò per evitare quello che spesso si pensa quando l’area di ricerca del lavoro comprende una parte di territorio composta da acqua, ossia il rischio del più classico “buco nell’acqua”, nel senso che lì non c’è lavoro, lì non ci si immerge nella ricerca di lavoro, perché se è pesca è fatica e crisi del settore, se è impiego in unità mercantili è fatica, scelta di vita troppo pesante e dirimente… Però non si pensa che possa invece essere una possibilità di impiego economicamente attraente nell’economia del lusso, fatta di skipper, di equipaggi per unità da diporto, per operatori delle darsene o ricercatori ambientali o organizzazione di eventi sportivi e/o ricreativi. Le attività di orientamento nel mercato del lavoro possono contribuire a cambiare il paradigma dell’economia del mare, lavorando con modernità su ciò che abbiamo di più antico.

Risulta quindi evidente che anche il mondo della formazione, ma anche, e soprattutto, dell’istruzione devono fare la loro parte, capovolgendo e ribaltando un adagio desueto, ma sempre presente in alcune realtà marittime, che recita “se non hai voglia di studiare…vai in mare.” Invece, il mare oggi è tecnologia, sicurezza sul lavoro, ambiente, qualità della vita, conoscenza di normative, possesso di elevate soft skills, di competenze trasversali rivolte al problem setting e al problem solving. Anche la scuola fin dalle scuole primarie – realizzando gli istituti comprensivi che permettono una regia educativa lungo tutto il percorso del diritto/dovere dell’Istruzione – deve narrare storie e leggende di mare, proiettarsi sulla conoscenza del proprio ambiente che da adulti sarà il proprio contesto territoriale per la ricerca attiva del lavoro. Alle primarie di secondo grado si potranno poi introdurre elementi di conoscenza meteo-marini, magari integrando l’educazione fisica col nuoto, la vela, la voga, ecc. Si tratta di investire sul “genius loci”, non come caratteristica folkloristica del luogo, che talvolta diventa perfino stigma negativo, ma proprio come “genio del luogo”. Su questa caratteristica bisogna costruire le politiche dell’istruzione, evitando la divaricazione tra scuola e lavoro, tra scuola e vita, tra vita e lavoro, che in realtà devono essere la stessa cosa. Così da una parte si contrasterà la dispersione scolastica e dall’altra si farà scoprire la piacevolezza di ogni momento vissuto nella compresenza di questi crismi e valori intrinsechi.

Non da ultimo incisive azioni incentrate sull’economia del mare contribuirebbero allo sviluppo e alla diversificazione del turismo costiero, sostenendo il vero export dell’Italia con tutto quello che ne consegue in termini di un effetto moltiplicatore che solo il turismo sa generare. Un turismo che è perfino difficile da misurare nel suo frammentarsi in una miriade di valori aggiunti a livello di settore e di compartimento. Di fatto il turismo è un “un fenomeno sociale, un’economia dell’ospitalità, la ricchezza molecolare dell’ospitalità”che può positivamente stravolgere le nostre città, non solo costiere, con l’economia del mare.

Del resto e più in generale, scendendo su un piano più emotivo, sentimentale e popolare, se cantautori come Lucio Dalla o Fabrizio De Andre’ hanno scritto e cantato “…il golfo di Surriento (Caruso)…” o “…Creusa de ma…” significa che in Italia il mare è un elemento insito nella nostra cultura, un tutt’uno, con i porti che non devono più essere l’angolo poco raccomandabile della città, ma devono diventarne parte integrante, zone di sostenibilità e di attrattività. L’iniziativa privata, i porticcioli privati, l’urbanistica comunale, i fondi europei devono privilegiare scelte che permettano ai porti di essere fruiti quotidianamente, commercialmente e turisticamente dalla popolazione, come comincia a verificarsi in diverse città italiane: insomma, dei porti-città aperti in grado di dare identità e ritorno economico. Economia, cultura, mercato del lavoro, istruzione, turismo, urbanistica, commercio, nuova mentalità: tutti questi fattori possono concretizzare l’economia del mare in una delle più potenti leve per affermare l’interesse nazionale.

Note

1. Marco Valle, “Patria senza mare. Perchè il Mare Nostrum non è più nostro. Una storia dell’Italia marittima”; Signs Publishing, Milano, 2022.

2. Fonte. Unioncamere – Centro Studi delle Camere d Commercio Gugliemop Tagliacarne

3. Gruppo di lavoro Solimetrica guidato da Antonio Preiti

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