Fuori lo straniero dal linguaggio politico e istituzionale

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screenshot YouTube, fonte propria

Ecco una battaglia su cui in teoria tutti dovrebbero essere d’accordo: l’abolizione dei termini inglesi dai documenti ufficiali del governo e delle istituzioni italiane e l’inserimento della lingua italiana in Costituzione. Una proposta di legge di Fratelli d’Italia e del vice presidente della Camera Fabio Rampelli, di cui ieri i gruppi parlamentari del partito di Giorgia Meloni hanno chiesto la calendarizzazione. Spiegheremo tra poco come il nostro “in teoria” sia nutrito di scetticismo. Ma intanto diciamo subito che si tratta di una causa sacrosanta. Non ne possiamo più dell’” itanglese”, un insopportabile cattivo italiano mischiato con un inglese rudimentale, di base, quasi alla Totò e Peppino di fronte al ghisa, anche se lì era il francese.

Lo trovi sulle bocche di tutti, dalla milanese imbruttita (una categoria dello spirito, non un luogo geografico) a cui ti va di gridare, alla Nanni Moretti, “ma come parli”, fino a colleghi universitari, umanisti, e persino italianisti, che scrivono cosi perché questa è lingua della burocrazia universitaria e della ricerca in Italia oggi. Ridurre gli anglismi (non anglicismi, parola che è a sua volta un anglismo) dalla società e dai media, a meno di non adottare la soluzione Monti di affidare al governo l’informazione, non è possibile. Ci provò il governo Mussolini nel 1923, con una Commissione che eliminò dalla vita pubblica i termini stranieri, portò a risultati a volte ridicoli ma condusse anche il genio dannunziano a coniare “tramezzino” in luogo di “sandwich” – poi ha trionfato il “panino” ma almeno è italiano.

Però si può cercare di estirpare dai documenti pubblici e dal linguaggio politico. Vi immaginate i nostri liberali della Destra e della Sinistra storiche, o i giolittiani, parlare di ground tax invece di tassa sul macinato o di Gentiloni deal invece di Patto Gentiloni (e non era per il Quirinale)? Del fascismo si è detto, ma anche nell’Italia repubblicana, i De Gasperi, i Fanfani, i Moro, gli Andreotti, i Craxi usavano assai raramente termini stranieri e men che meno in inglese: magari non si capiva cosa volessero dire (ma Bettino era chiarissimo) ma lo dicevano in italiano, e anche con ottima consecutio.

Poi deve essere successo qualcosa, intorno agli anni Novanta. Se è vero infatti, come riteneva Tullio De Mauro, che la presenza di termini stranieri nella lingua italiana è un segno di debolezza della identità nazionale, è anche vero che fino a tempi recenti il linguaggio politico ne era immune. Cosi come non convince la tesi di chi a sinistra ritiene la diffusione del (finto) inglese un portato dell’americanizzazione. In realtà, la lingua ha cominciato a cedere quando ha iniziato a crollare la sovranità. Perché, come scrive Leonardo Giordano in un libro recente (Sovranità, Giubilei Regnani) l’identità linguistica è fondamentale perché esista identità nazionale.

Il problema è grave non solo quando il popolo non parla ancora (o non più) la lingua nazionale ma anche e forse soprattutto quando non la utilizzano più le élite. La Russia del XVIII e del XIX secolo non era una nazione perché le classi elevate parlavano e spesso scrivevano in francese, come del resto, anche se per ragioni diverse, nel Regno di Sardegna che poi unificò l’Italia. Anche oggi corriamo lo stesso rischio: i politici sono una élite (anche se a vederli non sembra) e se cominciano a non parlare più la lingua nazionale in nome di un altro idioma, è problema serio. Con l’aggravante, che Cavour o i governanti dello Zar la lingua francese la conoscevano alla perfezione, mentre i nostri ministri, e persino i nostri presidenti del Consiglio, controllano assai male pure il povero inglese globalizzato.

Ed ecco il colpevole: l’erosione della sovranità nazionale. Il globalismo. E infatti oggi, quando la élite vera è quasi completamente sradicata dall’appartenenza nazionale, “gente da nessun luogo” secondo la definizione di David Goodhart, si è ritornati un po’ alla Russia del Sette e Ottocento. Per questo scrivevamo che l’unanimità nel difendere la sovranità linguistica è solo retorica. Se vuoi il globalismo, devi rinunciare alla tua lingua madre. Oppure, se vuoi difendere la tua lingua, devi contrastare il globalismo. Come amano dire in Inghilterra, you can’t have your cake and eat it o, come diciamo noi italiani, non puoi avere la botte piena e la moglie ubriaca.

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4 Commenti

  1. Professor Gervasoni, ci ho riflettuto più a lungo sull’argomento da lei trattato in questo suo intervento. E’ vero quanto affermato da De Mauro come è altrettanto vero quanto da lei affermato. Per me tutto parte dalla debolezza dell’identità nazionale ma ciò è solo l’effetto di decisioni scellerate prese in precedenza da vari governi che hanno portato allo sfilacciamento e alla frantumazione con conseguente distruzione del concetto di Nazione/Patria. Da quando sono istituite le Istituzioni delle Regioni, questo fu il primissimo scempio che poi ha comportato tutto il resto unitamente all’altro efferato misfatto delle varie riforme volutamente effettuate del nostro sistema scolastico. E da quel momento è stato un continuo e sempre più veloce rotolare verso gli inferi. Mi domando e le domande: siamo arrivati al fpndo della voragine e, allo stesso tempo, abbiamo la forza per per una pronta e veloce risalita?

  2. Non sono daccordo, la lingua muta con il mutare della società che ci piaccia o meno, ed il suo esempio dei tempi di Craxi mostra proprio questa cosa… erano, appunto, altri tempi!
    Oggi la globalizzazione fa parte della società ed una conoscenza, anche minima, dell’inglese non è solo obbligatoria, ma proprio necessaria!

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