Quel Guareschi politico che salvò l’Italia dai rossi

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Quando J. P. Sartre a Parigi se lo trova accanto che firma più copie di lui, se ne va piccato…

Da più di vent’anni studio Giovannino Guareschi, ne scrivo, gli ho dedicato due libri, non so nemmeno quanti saggi e una mostra. Non lo dico per vantarmi ma, al contrario, come ammissione preventiva di probabile colpa di innamoramento per il personaggio. Non credo però di esagerare quando condivido con Indro Montanelli la considerazione che la storia italiana del XX secolo «la si può fare senza chiunque altro ma non senza Guareschi». A dimostrarlo ci sono i fatti: sostenitore fondamentale della campagna elettorale democristiana nelle elezioni del 1948, che senza ombra di dubbio salvarono la nostra democrazia; autore della saga del Mondo Piccolo, che resta uno dei successi editoriali maggiori della letteratura italiana nel mondo e da cui sono tratti film che hanno riscosso un analogo successo internazionale; fondatore e direttore del Candido, settimanale da centinaia di migliaia di copie dove tra l’altro furono fustigati la partitocrazia e le «bustarelle». Nonché, cosa a cui attribuirei persino maggiore importanza, leader morale degli IMI, gli Internati Militari Italiani, le centinaia di migliaia di ufficiali e soldati che rifiutarono di collaborare con i tedeschi e di aderire alla Repubblica Sociale, finendo deportati nei lager, dove tantissimi di loro morirono.

Guareschi, insomma, non è solo Don Camillo, ne sono convinto al punto che proprio questo è il titolo che gli ho dedicato in un mio saggio. Così come gli IMI, la cui resistenza è stata dimenticata a lungo, nonostante la testimonianza di coraggio e coerenza pagata a carissimo prezzo e il fondamentale contributo fornito all’esito della Seconda guerra mondiale, anche Giovannino ha però subito un destino di ostracismo, sottovalutazione ed emarginazione. In un contraddittorio parallelo con il suo straordinario successo popolare, una fama che possiamo definire universale e immortale.

Basti ricordare che, come giornalista, è stato condannato e incarcerato, per 13 mesi, a causa di quanto aveva scritto e pubblicato su Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi. Che un gruppo di intellettuali, tra i quali compariva il Nobel Eugenio Montale, festeggiò la sua detenzione con un brindisi. Che alla sua morte «l’Unità» pubblicò un articolo tanto infame che il quotidiano, a distanza di decenni, ne prese le distanze scusandosi con un titolo autoironico: «Contrordine compagni». Lo stesso slogan che Guareschi usava per le sue sarcastiche vignette, in cui ritraeva i militanti del PCI pronti a seguire pedissequamente gli ordini del proprio organo ufficiale anche quando, per un refuso, si traducevano in azioni assolutamente assurde. Un dileggio tanto feroce che Palmiro Togliatti definì Giovannino «l’uomo più cretino del mondo» e che moltissimi anni dopo Miriam Mafai ammise in un’intervista: «Per noi non era un avversario, come si dice oggi, era un nemico».

Ma come, e Don Camillo? E Peppone? Non sono gli antesignani del compromesso storico, l’iconizzazione del dialogo tra comunisti e democristiani, cattolici e marxisti? No, esattamente il contrario, sono un’edulcorazione narrativa che vuole invitare al rispetto, spesso all’affetto, per l’antagonista dal punto di vista umano: nella totale, irrevocabile condanna di un’ideologia atea e liberticida. Distinguere errore ed errante, per usare la distinzione cara a papa Giovanni XXIII, ammiratore guareschiano al punto che pare abbia carezzato l’ideale di fargli scrivere un catechismo. «Quando parla del comunismo gli escono gli occhi dalle orbite» annota il cronista di «Life» che si reca a incontrare Guareschi, per un’intervista che uscirà col titolo «Funny anticommunist man». E lui stesso avvertirà sia un giovane militante del PCI, sia i suoi lettori borghesi e moderati che «il comunismo è molto diverso da Peppone».

Sia chiaro, comunque, che l’avversione contro Giovannino non è soltanto ideologica. È anche letteraria, l’inteligentija non gli perdona l’umorismo, che usa definendolo esplicitamente come un’«arma». Quando Jean Paul Sartre a Parigi se lo trova accanto che firma più copie di lui, se ne va piccato. E non sono solo i comunisti ad avercela con Guareschi, anzi: la DC non gli perdona che, dopo l’aiuto fornito nel ’48 (con i due manifesti «Mamma, votagli contro anche per me», dove si vede lo scheletro di un caduto in Russia, e «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no»), abbia cominciato ad additare limiti e malefatte del potere, dei governanti, dei partiti, senza eccezioni. Anziché passare alla cassa come altri giornalisti avrebbero fatto; la moglie, in un momento di comprensibile esasperazione, glielo dice anche: «Non potresti fare il tuo mestiere come la maggior parte dei tuoi colleghi, senza cercare rogne?».

Ma in quelle cruciali elezioni bisognava, in senso non troppo metaforico, impedire ai cosacchi di avvicinarsi alle fontane di San Pietro: la vittoria del Fronte democratico popolare rischierebbe di precipitare l’Italia nell’orbita del Patto di Varsavia. Le «divisioni» di Stalin sono pronte, l’Italia rischia non un semplice cambio di governo bensì una rivoluzione vera e propria, seppure mediata dal consenso delle urne. Come dice Montanelli: «C’è un Guareschi politico cui si deve la salvezza dell’Italia. Se avessero vinto gli altri non so dove saremmo andati a finire, anzi lo so benissimo». Che la sua non fosse partigianeria politica, bensì coerenza con alcuni valori non derogabili di libertà e patriottismo, lo aveva dimostrato già due anni prima, sostenendo la campagna in favore della monarchia al referendum istituzionale. Così nel ‘53 finisce in carcere per la pubblicazione di vignette, articoli e documenti ritenuti diffamatori, senza però che nel processo gli sia dato modo di produrre prove a favore della propria tesi. E comunque rifiuta di presentare appello contro la sentenza perché, dice, gli hanno ormai sottratto dignità e reputazione, e «se rapiscono mio figlio non tratto per farmi ridare una gamba».

Guareschi è stato insomma uno dei più importanti personaggi italiani del ‘900, anche ma non soltanto per i libri venduti in milioni di copie in tutto il mondo, inclusi i Paesi dell’Est, il cui successo prosegue a decenni di distanza grazie anche ai film: non proprio amatissimi dal loro ispiratore, salvo che per le interpretazioni di Fernandel e Gino Cervi, proprio a causa dell’eccessiva edulcorazione dei contenuti politici. Che di Guareschi si parli e si scriva ancora, che la sua testimonianza arrivi in Rai, conforta chi lo conosce e ama, anche per fugare il paradossale equivoco, il fraintendimento e la sottovalutazione di cui della sua statura morale e della sua importanza storica. Un rischio che corre a causa non solo dei «nemici» ansiosi di minimizzarne l’importanza, ma anche di taluni «amici», fuorviati da certe dichiarazioni contro la politica, l’ideologia, l’impegno e la cultura, che sembrano confermarne l’immagine di pensatore debole, di bozzettista a tinte neutre, di scrittore ignorante, di bastian contrario.

Interpretazioni errate che non possono confutare i dati fondamentali: la politica come grande passione di Guareschi, il ruolo centrale della letteratura e nel giornalismo, l’esempio di coerenza umana e intellettuale. La difficoltà nell’attribuirgli la posizione intellettuale e civile che merita è comprensibile solo se la si confonde con quella dell’intellettuale organico, engagé. Guareschi non fa mai l’agit-prop con la scusa dell’impegno: sia per onestà personale, sia perché non è mai discriminatorio verso le persone con opinioni diverse (lo è contro le opinioni che si trasformano in propaganda), sia perché non si pone né sotto il potere né sopra le masse. È sempre vicino alla gente, ai lettori: «Sono un uomo comune e quindi mi pare, parlando di me e dei miei, di fare un po’ la storia dei milioni di uomini comuni che con la loro assennata mediocrità tengono in piedi la baracca di questo mondo».

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