Gesù e Garibaldi. Questi erano i due ritratti che nella sua stanzetta di Trastevere il giovane patriota triestino Guglielmo Oberdan teneva appesi. Era la fine degli anni Settanta dell’Ottocento. Oberdan era nato vent’anni prima, nel 1858, a Trieste. La mamma era una slovena d’origine austriaca Josepha Maria Oberdank, il padre un militare (di professione fornaio) di Noventa di Piave, Valentino Falcier, che tuttavia non lo riconobbe. Sui libri parrocchiali – nonché imperial-regi – venne registrato come Wilhelm Oberdank, nonostante il nome di battesimo fosse italiano: Dionisio Guglielmo Carlo.
Guglielmo crebbe a Trieste, con un padre adottivo di origine slovena che gli voleva bene e gli consentì di studiare. Nel 1877, dopo il diploma, iniziò a frequentare i salotti letterari e culturali di Trieste nonostante la giovane età e la condizione familiare modesta. La città, unico porto di una certa importanza dell’Impero asburgico, stava passando un momento di crisi: dopo le due guerre d’Indipendenza italiane, in cui aveva guardato al Risorgimento d’oltreisonzo con sospetto, convinta che potesse continuare a vivere tranquillamente da città italiana sotto la corona asburgica, iniziava a circolare la convinzione che l’italianità di Trieste sarebbe stata possibile solo sotto bandiera tricolore. Gli slavi affluivano dal contado e non intendevano più italianizzarsi come forma di promozione sociale, cosa che era avvenuta fino a quegli anni. Oberdan, eliminando volontariamente la “K” alla fine del suo cognome, fu proprio uno degli ultimi abitanti di quelle terre di mescolanze a optare coscientemente per l’italianità.

A Trieste dunque si iniziava ad avere consapevolezza che la città, se fosse rimasta all’Austria, alla quale era legata da quasi cinque secoli tondi, sarebbe stata lentamente slavizzata. Del resto questi erano gli auspici dell’Imperatore, il vecchio Francesco Giuseppe, che nel 1868 aveva ordinato ai suoi funzionari di far fuori l’elemento italiano del suo impero. Gli ideali rivoluzionari e mazziniani degli italiani non consentivano più di considerarli sudditi fedeli. Gli slavi, al contrario, si erano affacciati alla consapevolezza nazionale molto tardi (il nome “Slovenia” neppure esisteva prima del 1843): per la dirigenza asburgica poteva essere un buon compromesso quello di attrarli nuovamente alla fedeltà dinastica in cambio delle agognate città italiane della costa giuliano-dalmata.
Oberdan era entrato a sua volta in contatto con gli ideali mazziniani e ne era rimasto folgorato. Giuseppe Garibaldi, l’Eroe dei Due Mondi, era diventato il suo mito. Così, quando fu chiamato alle armi per partecipare all’invasione della Bosnia-Erzegovina stracciò la cartolina-precetto e disertò, fuggendo in Italia: non si sarebbe prestato all’ennesima oppressione di un popolo da parte dell’Impero asburgico.
In Italia il giovanissimo disertore ricevette inizialmente con un sussidio dello Stato. Tuttavia all’università – che riprese a frequentare per diventare ingegnere – si era lasciato andare a discorsi troppo rivoluzionari anche per l’Italia post-unitaria, e il sussidio gli fu revocato. Si procurò da vivere allora come traduttore e disegnatore tecnico. Finalmente, nel 1879 riuscì a incontrare il suo mito, Giuseppe Garibaldi. L’anziano generale lo salutò con un bacio in fronte, ed egli sentì d’essere stato benedetto. Quando, nel 1882 l’Eroe morì, Guglielmo ne rimase distrutto: seguì il corteo funebre con la bandiera di Trieste legata al collo. Il suo lutto era quello per la sua città ancora sotto il dominio asburgico, dominio di cui non si vedeva la fine. La morte di Garibaldi infatti giungeva pochi giorni dopo l’ingresso dell’Italia nell’alleanza con la Germania guglielmina e il “secolare nemico” Impero austro-ungarico, la “Triplice”. Se Roma e Vienna erano alleate, la speranza di cacciar via gli austriaci dalla sua città diventavano minime.
Guglielmo si convinse allora che occorreva un gesto eclatante. Fra i miti dei rivoluzionari dell’epoca c’era infatti il carbonaro Felice Orsini che il 14 gennaio 1858 aveva cercato d’assassinare Napoleone III con un attentato dinamitardo che aveva provocato 8 morti e 156 feriti. Oggi lo definiremmo un terrorista, ma all’epoca Orsini era considerato un eroe, e perfino lo stesso Napoleone III, al termine del processo che lo vide condannato a morte, venne tentato dall’idea di concedergli la grazia, ammirandone il contegno coraggioso e la purezza dei suoi ideali patriottici e rivoluzionari. Oberdan, insieme ad alcuni compagni, decise di emulare il carbonaro, puntando all’arcinemico dell’Italia unita, Francesco Giuseppe d’Austria, atteso a Trieste per la celebrazione del cinquecentenario della Dedizione della città agli Asburgo, il 30 settembre 1882.
Si procurò così due bombe “all’Orsini” e passò il confine a Ronchi. L’azione però fu più coraggiosa che abile, e Oberdan venne subito arrestato. Dopo aver inizialmente cercato di dare false generalità, Oberdan decise di cercare il martirio. Si autoaccusò di aver voluto organizzare un attentato all’Imperatore e al processo fece di tutto per farsi condannare. E la condanna arrivò prontamente. Dalla diserzione al terrorismo (“cospirazione” come si diceva allora), banda armata, resistenza all’arresto eccetera, Oberdan aveva un discreto elenco d’accuse. In sua difesa si alzarono le voci di tanti intellettuali e patrioti in Italia e in Europa, come Giosue Carducci e Victor Hugo, ma da Vienna non arrivò alcuna grazia (del resto, lui neppure l’aveva chiesta).
All’alba del 20 dicembre venne impiccato nel cortile interno della caserma grande di Trieste, edificio che dopo l’unificazione della città all’Italia fu raso al suolo e trasformato nella piazza che porta oggi il nome del martire. Mentre il boia austriaco gli metteva il cappio al collo Oberdan esclamò: “Viva l’Italia, viva Trieste libera, fuori lo straniero!”.
Carducci condannò con parole di fuoco il supplizio di Oberdan con un’epigrafe memorabile contro Francesco Giuseppe, ribattezzato “l’imperatore degli impiccati”: «Nel sangue ingiovanì, nel sangue invecchia, nel sangue speriamo che affoghi; e sia sangue suo (…) E leviamo tra dieci anni, su l’ultima cresta delle Alpi nostre, un monumento a Caio Mario e a Giuseppe Garibaldi, col motto: Stranieri, a dietro!».
Il suo gesto mise in grave imbarazzo il governo italiano visto che tra l’altro Umberto I era stato da poco accoltellato da un anarchico, Giovanni Passannante, e la “moda” degli attentati a presidenti e teste coronate in Europa e America cominciava a diventare preoccupante. In tutta la Penisola si assistette a un vero florilegio di “associazioni Guglielmo Oberdan” che e chiedevano a gran voce la ripresa della politica irredentista anti-austriaca. La polizia italiana ebbe un gran daffare a reprimere questi moti, dovendo considerare allo stesso tempo che quello era il vero sentimento della gran parte degli italiani, ai quali l’alleanza con l’Austria non era mai andata giù.
Il 15 settembre 1882, poco prima di partire per la sua impresa, Guglielmo Oberdan aveva indirizzato il suo testamento politico, “Ai fratelli italiani”: “Vado a compiere un atto solenne e importante. Solenne perché mi dispongo al sacrificio; importante perché darà i suoi frutti (…) I figli dimenticano i padri: il nome italiano minaccia di diventare sinonimo di vile o di indifferente. (…) Fuori lo straniero. E vincitori, e forti ancora del grande amore della patria vera, ci accingeremo a combattere altre battaglie, a vincere per la vera idea, quella che ha spinto sempre gli animi forti alle cruente iniziative, per l’idea repubblicana. Prima indipendenti, poi liberi. Fratelli d’Italia, vendicate Trieste e vendicatevi”. Gli italiani del suo tempo erano di un’altra pasta rispetto a oggi, e l’ascoltarono: ci vollero, è vero, altri 36 anni, ma la speranza di Oberdan resa solenne dal suo sacrificio, venne finalmente realizzata il 3 novembre 1918, quando gli italiani alzavano finalmente la bandiera Tricolore nella Città di San Giusto.