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Al punto 6 della lista del primo pranzo futurista, la sera dell’8 marzo del 1931, alla Taverna Santopalato a Torino, “dopo una febbrile giornata di intenso lavoro nella cucina, dove i futuristi Fillìa e Saladin gareggiavano con i cuochi del Ristorante”, c’è il torreggiante Carneplastico (formula – ricetta – Fillìa). Il Carneplastico “È composto di una grande polpetta cilindrica di carne di vitello arrostita ripiena di qualità diverse di verdure cotte. Questo cilindro disposto verticalmente nel centro del piatto, è coronato da uno spessore di miele e sostenuto alla base da un anello di salsiccia che poggia su tre sfere dorate di carne di pollo”. Insomma, il futurismo aveva stravolto il mondo intero della cultura e di tutte le arti italiane. Filippo Tommaso Marinetti, dal Manifesto di fondazione (1909) alla sua morte (1944), aveva rinnovato ogni orizzonte possibile: musica, teatro, abbigliamento, architettura, scenografia, e persino cucina. Il 28 dicembre del 1930 venne pubblicato sul quotidiano torinese “La Gazzetta del Popolo” il Manifesto della cucina futurista: “Nasce con noi futuristi la prima cucina umana, cioè l’arte di alimentarsi. Come tutte le arti, essa esclude il plagio ed esige l’originalità creativa. Non a caso questa opera viene pubblicata nella crisi economica mondiale di cui appare imprecisabile lo sviluppo, ma precisabile il pericoloso pànico deprimente. A questo pànico noi opponiamo una cucina futurista, cioè: l’ottimismo a tavola”. La formula, o ricetta, della polpetta “Carneplastico”, invenzione, come si è visto, di uno dei più importanti futuristi – Luigi Colombo, in arte Fillìa, pittore e poeta – fu servita durante il famoso aerobanchetto di Bologna, che seguì l’inaugurazione della Mostra di aeropittura, il 12 dicembre 1931. Era un “Carneplastico con fusoliera di vitello”, “indiscutibile successo”, come scrisse il cronista de Il Resto del Carlino. Questa grande polpetta verticale, che ha nelle undici verdure un’interpretazione degli orti, dei giardini, e dei pascoli d’Italia, rappresentava un cibo secolare e popolare, che consentiva di riproporre gli “avanzi”, soprattutto del lesso. Con i futuristi divenne un oggetto nuovo, dinamico e plastico che, tra storia e ironia, trasformava il passato in futuro unendo tradizioni e ideologie
Beatrice Gigli
Il connubio tra cibo, arte, potere. E amore

Il cibo è stato spesso protagonista nel mondo dell’arte. E spesso le tavole imbandite ritratte dagli artisti erano un modo per ostentare potere e ricchezza. O denunciarne una mancanza. Nell’opera pittorica Cucina di Vincenzo Campi (1536-1591), l’abbondanza è il messaggio che trapela da quella confusione di servitori indaffarati, cesti pieni di frutta, animali e pentole. Il ritratto di un interno di cucina di una famiglia potente, come il pittore aveva avuto modo di conoscere presso la corte di Parma.
Spesso, le committenze rivolte agli artisti volevano che le opere evidenziassero lo status di potere raggiunto. E quale maggior dimostrazione di una tavola imbandita o sontuosi banchetti? Allo stesso tempo il cibo diveniva veicolo per raccontare la povertà, come ne I mangiatori di patate di Van Gogh, o di misticismo. La Cena in Emmaus del Caravaggio (1601) rappresenta il momento in cui il Cristo risorto viene riconosciuto da tre discepoli. Avviene nell’intimità di una tavola sobria e un’ambientazione semplice: pollo, frutta, pane, acqua, vino. Nella semplicità di una tavola avviene la rivelazione e attorno a un tavolo, la forza mistica del dipinto e la sua intimità trapelano chiaramente.
Cibo come dimostrazione di forza e potere ma anche come grande passione. L’amore per la buona tavola ha influenzato anche Picasso. Amava frequentare ristoranti a Barcellona, dove gli capitò di pagarsi da bere o da mangiare creando in cambio schizzi e disegni.
In alcuni artisti, la passione per il buon cibo è cresciuta di pari passo con l’arte: basti pensare a Gioachino Rossini, musicista e vero gourmet, a cui sono state dedicati diversi piatti famosi, come il filetto alla Rossini. Il bohémien Henri de Toulouse-Lautrec era conosciuto anche per essere un vero talento ai fornelli: amava mangiare ma anche cucinare in prima persona. Nel 1901, dopo la sua morte, il suo amico Maurice Joyant, in suo onore raccolse le sue ricette in un libro: La cucina di Monsieur Momo. Si ispirava all’arte anche il maestro Gualtiero Marchesi. D’altronde, come diceva il Maestro, il cuoco può essere un artista. Ma servono talento, cultura e idee.
POLPETTE AL POMODORO
Le polpette sono un piatto antichissimo. Il termine deriva dal latino ‘pulpa’, polpa. Le troviamo citate nell’Arte Culinaria di Marco Gavio Apicio, famoso gastronomo romano vissuto fino al 35 D.C.
Difficoltà: facile
Preparazione: 15 minuti
Cottura: 30 minuti
Ingredienti per 4 persone:
- 500 gr di carne bovina macinata
- pangrattato q.b.
- 500 gr di passata di pomodoro
- 1 cipolla
- 3 cucchiai di olio extravergine di oliva
- 1 ciuffetto di prezzemolo
- sale q.b.
Preparazione:
Versate in una ciotola la carne macinata, il prezzemolo tritato e un pizzico di sale. Lavorate il tutto con le mani fino a ottenere un composto omogeneo e morbido.
Preparate la salsa rosolando in una padella la cipolla tritata con un po’ d’olio. Unite la passata e cuocete a fuoco lento per qualche minuto regolando di sale.
Formate delle palline con il composto e rotolatele nel pangrattato. Cuocetele in una padella con un filo d’olio finché non sono dorate. Adagiatele nella salsa e cuocete per 15 minuti. Servitele calde.
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