Alberto Rossi è senz’altro uno dei protagonisti storici più amati di Un posto al sole, dove cominciò sin dalla prima edizione del 1996. Il suo personaggio è il giornalista Michele Saviani: uomo misurato, dotato di ironia e profondo senso di giustizia, appassionato in tutto ciò che lo coinvolge, innamoratissimo della figlia, per la quale farebbe qualunque cosa pur di proteggerla. Non è molto diverso Alberto Rossi nella vita reale, sebbene ammetta ridendo “Se dovessi passare una minima parte di tutto quello che ha subito Michele Saviani in questi 29 anni, tra vicende sentimentali, professionali e situazioni di pericolo, non credo avrei retto!”. Il rispetto per gli altri e l’attenzione alle regole, però, hanno definito da sempre la sua educazione, come ci racconta partendo dal ricordo di un suo prozio piuttosto importante: Beppe Niccolai, deputato del Movimento Sociale Italiano tra gli anni ’60 e gli anni ’70.
Era il fratello più piccolo di mia nonna: anche per motivi di età, quindi, lo vivevamo a tutti gli effetti come uno zio, nonostante i suoi numerosi impegni da politico. Andavamo spesso a casa sua, una bellissima abitazione nel centro di Pisa. Era un intellettuale: anima critica e per certi versi anche rivoluzionaria nell’MSI. Una personalità molto importante, apprezzata e rispettata anche dagli avversari perché se si è persone perbene si può essere limpidi, senza nascondere ciò che si pensa, godendo del rispetto di chiunque.
Un po’ come te.
In qualche modo sì. Ho sempre pensato diversamente rispetto alla maggioranza del mondo dello spettacolo: sono una mosca bianca. Ho frequentato il liceo Mamiani, dove è nato il moto studentesco del ’68 e che fu teatro principale della rivolta all’epoca. Non mi hanno mai osteggiato, però, perché credo di potermi definire una persona seria, so come porre le cose, senza attaccare nessuno.
Frutto anche di un’educazione precisa impartita dai tuoi genitori.
Certo. Mio padre è un ammiraglio ormai in pensione, partito da Gorizia alla volta della Nunziatella di Napoli, quindi entrato in Accademia a Livorno. Da ufficiale di Marina, ci ha educati alla disciplina, ma non con una severità temibile. È sempre stato quel padre tranquillo che lui non aveva avuto essendo orfano di guerra.
Essere figlio di un ammiraglio cosa significa?
Anzitutto vivere una grande avventura, continuamente in viaggio tra le “navi grigie”. Ogni due, massimo tre anni, ci si spostava in una città diversa. A qualcuno potrebbe sembrare destabilizzante, ma per noi non lo era: anzi, cambiare è stato fondamentale per crescere. Ho vissuto fra Messina, Trapani, Lerici, Taranto, Napoli, Augusta, La Spezia. Poteva capitare anche di non avere una casa e di soggiornare presso uno degli alloggi della Marina o una foresteria delle diverse destinazioni. È andata così fino al 1979, quando mio padre ebbe un grosso incarico al Ministero della Difesa Marina e quindi da quel momento ci fermammo a Roma.
In questi giorni, dopo un tour mondiale di quasi due anni, è tornata in Italia la Nave Amerigo Vespucci. Anche con quella ha avuto a che fare tuo padre, giusto?
Sì, la guidò nel 1976 in occasione del bicentenario della Dichiarazione di Indipendenza degli USA. In quell’occasione sfilarono i più bei velieri di tutto il mondo sull’Hudson River, a New York e la Vespucci vinse la targa come nave più bella del mondo. Fu una parata importantissima, ma all’epoca non ne parlò nessuno. Per tanti anni i governi si sono disinteressati a parlare di queste cose. Oggi per fortuna l’eccellenza italiana è valorizzata come merita. Il Vespucci è una nave scuola costruita nel 1931, ancora perfetta per gli addestramenti.
Torniamo all’educazione che hai ricevuto. In certi momenti non hai pensato che sarebbe stato meglio non avere troppo rigore?
Al contrario, ringrazio di avere avuto un’educazione così impartita dai miei genitori. Anche perché non lo chiamerei proprio “rigore”: sono regole, senza le quali non si andrebbe avanti. È importante avere un’educazione che ti sappia fare comportare in ogni circostanza. Mio padre non ci faceva giocare oltre una certa ora ai videogiochi: al momento ti dispiace, ma poi capisci che quelle regole non sono negazioni, ma paletti fondamentali nella vita.
A volte però le regole fanno paura: basta vedere quanti polveroni si alzano appena vengono votate leggi a favore della sicurezza.
Ma magari ce ne fossero di più! Non giriamoci intorno, le regole sono l’abc di una società. Si capisce con chi si ha a che fare già da come sta seduto a tavola, da come parla, da come saluta. Mi è stato insegnato che le signore vanno salutate sempre prima, anche se in presenza di grandi personalità. L’educazione è alla base della cultura: andrebbe ripristinata l’educazione civica nelle scuole.
Tua figlia adolescente ha cellulare, social?
Lei ha quasi 13 anni. Ha il cellulare, frequenta i social ma senza metterci la faccia. Le dò la possibilità di postare video di editing fatti da lei su Tik Tok o su Instagram: fa una cosa creativa che le serve, ma non ci può mettere la faccia. C’è un controllo supremo da parte mia e di sua madre.
Alcune cose però restano ingestibili: se un ragazzino guarda un video su You Tube, tra i contenuti suggeriti può apparire anche qualcosa che non si vorrebbe e da lì aprirsi strade completamente diverse.
Per quanti filtri si possano mettere sul telefonino, bisogna comunque restare con gli occhi sbarrati dietro ai figli, quindi controllare la cronologia di whatsapp e del browser. Non può esserci una totale privacy rispetto a questi fenomeni. In questo senso noi eravamo più difesi non essendoci Internet.
Questa tua attenzione alle regole e al rispetto come ti ha aiutato nella tua carriera di attore e regista?
Non ho mai litigato con nessuno, ho sempre cercato di essere ciò che mio padre mi ha spronato a essere: un professionista professionale. Proprio lui, dopo che mi ero diplomato all’Accademia Silvio D’Amico, insistette perché fossi ancora più deciso e professionista di uno che prendeva una qualunque altra laurea: avevo voluto fortemente fare l’attore, scegliendo quindi una carriera insicura. Bene, questo meritava di essere ancora più “mastino”.

Recentemente Giorgia Meloni ha detto che nel mondo dello spettacolo è più difficile dire che si vota a destra perché le dinamiche sono sempre gestite da correnti opposte. È vero?
Mi spiace dirlo ma è vero. Poi sono anche convinto del fatto che la professionalità prima o dopo venga sempre apprezzata: io volevo solo fare l’attore, non ho mai avuto un piano B e a scuola ero sempre rimandato o bocciato. Avrei potuto fare di più forse, ma in effetti ho sempre lavorato, con la fortuna di iniziare in un’epoca in cui non ci si improvvisava attori emergendo da reality, dai social, o da simpatie…
Troppi attori non attori insomma oggi.
Purtroppo sono i fatti a dirlo. Dal 2020 si è intrapresa la strada di mandare i provini direttamente autoregistrandosi con il cellulare, facendosi dare le battute da un’altra persona. Si gira tutto all’agenzia che ti sceglie senza sapere come parli al di là del provino. Per me è una follia.
Nella tua carriera tutto sommato hai fatto poco teatro. Come mai?
Appena uscito dall’Accademia ho firmato subito due contratti importanti con la RAI, facendo I ragazzi del Muretto (prima serialità importante di viale Mazzini, ndr), e Ti ho adottato per simpatia con Gianfranco Jannuzzo e Daniela Poggi. Tra la prima e la seconda serie de I Ragazzi del Muretto, però, inserii una tournée con Albertazzi, che significa la Formula Uno del teatro! E poi mi sono legato a Un posto al sole, che è assolutamente una famiglia di cui non farei a meno. In Italia c’è ancora un po’ di puzza sotto il naso a proposito delle serie tv: speriamo prima o poi cambino le cose…
In questi 29 anni di Un posto al sole, c’è un episodio identitario di Michele Saviani che più di ogni altro ne descriva il personaggio?
C’è una attenzione madornale nei nostri confronti: Michele ha rischiato di morire due volte. Una volta fu accoltellato dalla moglie dopo aver scoperto un tradimento, l’altra si è preso una pistolettata. Ecco, la passione e l’amore e gli attestati di stima e dolore che ho ricevuto in queste due occasioni sono stati impressionanti: credo che nella fiction, come nella vita, spesso nelle sofferenze si comprenda ancora di più la verità d’animo di una persona.
Abbiamo detto che sei stato un adolescente che ha girato l’Italia. La tua città identitaria?
Ultimamente sto risentendo un richiamo furioso da La Maddalena, dove ho la residenza e da Livorno, dove sono nato vivendo una infanzia spettacolare: i luoghi dove si cresce lasciano sensazioni che rimangono in un modo micidiale. In certi momenti ho dei nodi alla gola pensando di non poter essere lì.