Un’attrice che non si ferma mai. La settimana scorsa aveva salutato il pubblico de Il Paradiso delle Signore sui social, anticipando che la sua Contessa Adelaide tornerà dopo altri impegni lavorativi che la riguardano. Detto fatto, rieccola quindi subito a teatro. Vanessa Gravina veste nuovamente i panni dell’intrigante, diabolica e innamorata Romaine Vole, protagonista di Testimone d’accusa. Il celebre testo di Agatha Christie (qui con la regia di Geppy Gleijeses e la traduzione di Edoardo Erba) è fino al 29 ottobre al Manzoni di Milano, dove Vanessa ha fatto il suo debutto assoluto pochi giorni fa. Insieme a Giulio Corso e Paolo Triestino, la Gravina sta riscuotendo ogni sera un grande successo, a conferma del fatto che la gente ha continuamente fame di teatro. L’affascinante storia scritta 80 anni fa dalla Christie, carica di cinismo e British humor allo stesso tempo, non smette di raccontare dinamiche a loro modo attuali, tra mezze verità, tradimenti e giochi machiavellici.
“È uno spettacolo che vuole emozionare e stravolgere”, ammette Vanessa Gravina, “mettendo la natura umana allo specchio e tirando fuori quindi anche la sua parte implicita più brutta”.
Vanessa, chi è Romaine?
Un personaggio incredibile. Anzitutto perché è scritto da Agatha Christie, quindi è chiaramente geniale. E poi racconta una verità, estrapolata da un meccanismo strategico che alla fine rivelerà ben altro.
Ci sono punti in comune tra te e Romaine?
Avvicinarsi a un personaggio così mistico, una dark lady inarrivabile, è quasi impossibile. Ci sono però, in effetti, delle componenti che ci accomunano. Anzitutto la passionalità, che ha sempre condotto la mia vita e che è la nota principale di questo personaggio. Inoltre siamo entrambe un po’ straniere nei nostri ambienti.
In che senso?
Romaine è una tedesca che arriva in Inghilterra con la sua cultura Sturm und Drang. Io, pur rimanendo in Italia, porto la mia nordicità, condita da passioni di origini siciliane, a Roma. Città stupenda, che mi ha accolta e che ho adattato a essere casa mia. In un certo senso sono una straniera milanese che ambienta la sua vita in una capitale abitata, ovviamente, per la maggior parte da romani.
Intravedo un sano orgoglio per le tue radici.
Certo, ho sempre mantenuto come attitudine mentale la mia appartenenza a una città diversa da quella in cui vivo, seppur ami tantissimo Roma.
L’estraniamento, quando sa adattarsi all’ambiente, può essere un punto di forza per comprendere in modo più completo se stessi e gli altri.
È proprio quello provo a portare ogni sera in scena quando interpreto Testimone d’accusa. Al pubblico deve capitare davanti non solo un personaggio pieno di mistero, iconico e impenetrabile ma anche lo straniero, per creare un contrasto e una diversità rispetto a tutto il resto che si vede. Non a caso al cinema fu interpretata da una straordinaria Marlene Dietrich, attrice tedesca residente negli Stati Uniti.
Restando nel parallelismo col personaggio. Ti è mai capitato di prendere le difese di qualcuno, con una bugia che ti si ritorcesse contro?
Più che altro mi è accaduto di dire bugie bianche, non sempre andate a buon fine, per proteggere qualcun altro ed evitargli delle ansie. Credo siano le migliori perché non sono nocive. È una cosa che succede sin da giovani, quando si inventano di continuo delle bombe pazzesche ai propri genitori, anche in buona fede, per non farli preoccupare.
Sul lavoro ti è mai capitato?
No in quel contesto sono piuttosto rigorosa e molto trasparente. Sul lavoro mi piace la correttezza assoluta.
Parlare di omicidi sui media rischia di banalizzare l’argomento e altresì influenzare persino le menti malate di alcuni potenziali assassini. Cosa può insegnare il racconto di una dinamica simile in un incontro culturale tra romanzo giallo e teatro?
All’epoca in cui è ambientata la pièce c’era l’impiccagione, come ahimè succede ancora in certi Paesi arabi e non solo. In questi casi decretare qualcuno colpevole o innocente, significa decidere tra vivere o morire. Ritengo che parlarne oggi credo sia particolarmente interessante. Stiamo vivendo, da troppo tempo ormai, un problema di leggi sull’impunità. Penso sia importante attualizzare il tema, sottolineando come debba esistere un concetto di responsabilità per cui prima di commettere un reato bisogna sapere le conseguenze che si avranno.
L’Italia, Milano in testa, sta soffrendo molto questo problema di sicurezza con la delinquenza in crescita. Cosa si dovrebbe fare?
Ci vuole attenzione su un argomento che non può essere sottovalutato. Si sentono troppe notizie di stupri, violenze, devastazioni, furti, senza che vi siano pene adeguate. E poi credo si debba andare alla base partendo anche dal nostro sistema sanitario psichiatrico, non sufficientemente adeguato.
Cioè?
Dalla legge Basaglia non è più obbligatorio internare il folle che viene a contatto con le famiglie e le realtà intorno a lui: questo non va bene. Quando una persona è pericolosa è giusto intervenire per il bene della comunità, non arrivare a dover riflettere dopo che ormai sono successe tragedie.
Dopo anni di pandemia in cui la politica sembrava disinteressarsi del teatro, oggi le sale sono tornate piene. Credi che, intanto, stia migliorando anche l’atteggiamento della politica in questo senso?
Certamente. C’è stata da parte del pubblico una riscoperta del vintage di uno spettacolo dal vivo, che pensavamo erroneamente essere sempre alla portata di tutti. Il teatro non lo puoi riprodurre delivery come il cinema. La gente lo ha capito e, vedendo i numeri, anche la politica ha finalmente assorbito questo messaggio, comprendendo che bisogna investire nella cultura. Non bisogna comunque fermarsi: da artista vorrei si investisse di più in questo ma anche nella sanità.
Sei impuntata sulla sanità.
È naturale. Non si può investire solo in quella privatizzata. Ci devono esser le basi sanitarie per tutti, in proporzione alle tasse che paghiamo e agli sforzi che produciamo: il cittadino ha diritto ai fondamentali. Non esiste che si possa fare una radioterapia immediata solo se si hanno 30.000 euro pronti, altrimenti devi aspettare un anno e mezzo quando rischi di essere già morto! Per carità, la politica di riarmo è importante per affermare l’identità di un Paese, ma da artista mi interessa che ci si preoccupi della cura del corpo e dell’anima: i pilastri fondamentali.
Jung diceva che la felicità non si compie con la perfezione ma con la completezza. Tu, tra fiction, teatro e cinema, sei decisamente completa. A che punto è la tua “imperfetta felicità”?
Ormai sono diventata molto basica: quando riesco a ritagliarmi del tempo per me sono già felice.
Tra tanti impegni non deve essere facile.
Anche il lavoro mi permette di trovarmi con me stessa. Mi fa stare bene essere in contesti di qualità, che sono sempre più rari ma che ho la fortuna di incontrare tra teatro, tv e cinema, quando ho l’opportunità di farlo nel mio Paese. L’appagamento sta nel fare bene le cose, senza raccontare frottole a se stessi. Poi le cose possono funzionare oppure no: quell’ansia ormai non la vivo più. L’importante è stare bene con se stessi e non millantare soddisfazione completa quando non c’è.